L'intervista. Suor Gloria: «Nel Sahara pregavo per i miei sequestratori»
Suor Glora, 59 anni
«Scrivevo lettere al Signore sulla sabbia del deserto. Disegnavo anche vasi di fiori, con una scritta che diceva “Dai gloria a Dio”. A volte riuscivo a scarabocchiare i miei pensieri su un quaderno utilizzando come penna il carbone che avanzava, dopo aver cucinato». Per 1.705 giorni, Gloria Cecilia Narváez, religiosa delle suore francescane di Maria Immacolata, ha trascorso così le ore successive al risveglio. «Mi piaceva molto vedere il sorgere del sole, mi faceva penare alla grandezza di Dio che si manifesta nel Creato», racconta la 59enne colombiana, per quasi cinque anni ostaggio di Gsim, la branca di al-Qaeda nel Maghreb che, il 7 febbraio 2017, l’ha catturata a Karangasso, in Mali, dove assisteva i bimbi orfani e insegnava a leggere e scrivere alle donne delle comunità rurali. In realtà, il commando aveva preso una consorella più giovane. Suor Gloria, però, è offerta al suo posto. «Sono io la responsabile», ha detto prima di essere portata via verso un punto imprecisato del Sahara. Una prigione di sabbia e silenzio da cui è riemersa il 9 ottobre scorso. Giusto in tempo per partecipare, il giorno successivo, a San Pietro, alla Messa di apertura del Sinodo sulla Sinodalità e ricevere un saluto e un abbraccio speciale da papa Francesco, prima di rientrare in Colombia.
Come trascorreva le giornate di prigionia?
Cucinavo, lavavo la roba, quando c’era acqua e ricordavo i momenti trascorsi con la mia famiglia, con le mie sorelle. Soprattutto pregavo. Pregavo per i tanti sequestrati, come me. E pregavo per i miei rapitori.
Che cosa direbbe loro se li rivedesse?
Chiederei loro di liberare gli ostaggi, perché Dio è il Padre di tutti. Dobbiamo sforzarci di dialogare: solo insieme possiamo costruire una società fraterna.
Che cosa la faceva soffrire di più nel deserto?
La notte il buio era totale. Qualche volta si sentivano delle grida che mi terrorizzavano. Non sapevo che cosa sarebbe potuto accadere.
C’è anche un ricordo bello di quel periodo durissimo?
Amavo osservare le stelle, non le avevo mai viste così grandi. E guardare i cammelli mentre si spostano, sempre in gruppo: sono stupendi.
Come il sequestro ha cambiato la sua fede?
Non mi sono mai sentita abbandonata da Dio. Fin dal principio mi sono mesa nelle sue mani. Ogni giorno lo ringraziavo perché mi teneva in vita e ripetevo: “Padre, nelle tue mani metto la mia vita”. Ho capito davvero il significato di queste parole durante il rapimento, in cui ho vissuto l’incertezza totale. Quest’esperienza, dunque, ha rafforzato la mia fede. Ero sola, completamente sola. Eppure sapevo di non esserlo, perché Dio era al mio fianco. Una cosa è comprenderlo razionalmente, un’altra.
Vuole tornare in Africa?
Mi piacerebbe, ma fra qualche tempo. Per prima cosa, però, sono felice di essere tornata in Colombia per reincontrare le sorelle della mia comunità e i miei familiari. Mentre ero prigioniera, è morta mia madre Rosita e voglio andare a pregare sulla sua tomba. Poi, se Dio mi darà la salute, continuerò con la mia vocazione di missionaria che mi porta a stare a fianco dei dimenticati per restituire loro la dignità. Credo di poterlo fare, ora, con una prospettiva differente perché ho sperimentato sulla mia pelle la prigionia, la fame, la solitudine, la paura. Continuerò anche a rendere grazie a Dio per avermi protetta nei momenti di maggior difficoltà e tenuta in vita.