Myanmar. Sulle minoranze «ostili» cala lo spettro del disastro umanitario
La libertà schiacciata. Sono ormai inesistenti le proteste di piazza in tutto il Myanmar dove l’opera di «normalizzazione» sta creando intere zone militarizzate
«Possiamo aspettarci una crisi umanitaria di cui vediamo già i segnali. Se riusciremo ad avere cibo e aiuti a sufficienza i Karen in fuga non dovranno espatriare. Quello che noi in cooperazione con la Karen National Union cerchiamo di fare è fermare la fuga già iniziata verso la Thailandia, di convincere gli sfollati a restare nella giungla o sulle montagne, ma comunque sulla loro terra», testimonia David Eubank, statunitense, da una ventina d’anni a capo di una organizzazione umanitaria, Free Burma Rangers, in cui ha applicato la sua determinazione e la sua esperienza di ex militare. Dalla foresta conferma come «le intenzioni dei militari non sono cambiate in 70 anni e il loro proposito resta di dominare le etnie e le loro risorse. Credo che la situazione possa peggiorare perché il regime sta rafforzando la presenza armata nelle terre delle minoranze».
Un rischio, quello di una crisi umanitaria di grandi proporzioni che inevitabilmente coinvolgerebbe Paesi confinanti o limitrofi ( Thailandia ma anche Cina, India, Bangladesh e Malaysia) evidenziato anche da organizzazioni internazionali e diplomazie. Mentre in questi giorni almeno 30mila birmani della regione centrale di Magwe sono costretti a trovare rifugio dai combattimenti tra esercito e forze di difesa popolare, in molte aree abitate dalle minoranze che disegnano quasi tutti i confini terrestri del Myanmar è in corso un movimento di espulsione delle popolazioni dai loro villaggi per aprire nuovi “corridoi” utili agli spostamenti di truppe e agli interessi anche economici delle forze armate, ma anche per terrorizzare la popolazione civile e piegarne la resistenza. Sarebbero almeno 250mila finora gli sfollati, ma se il numero è incerto, sicure sono le loro difficoltà. Riconosciute e accolte anche dalla Chiesa cattolica attraverso la Caritas birmana (Karuna) e iniziative locali.
Una Chiesa che tra le minoranze ha radici salde e antiche e che sta pagando un prezzo, sia alla sua «diversità» in un contesto che fatte salve alcune aree è perlopiù buddhista, sia per il sostegno che sta portando agli abitanti in condizioni di bisogno senza distinzione di fede. L’occupazione e profanazione da parte dei soldati della chiesa di San Giovanni (e della vicina chiesa battista) a Chat, nello Stato Chin, il 31 agosto, è solo l’ultimo caso ma sono decine di edifici di culto invasi e requisiti dai militari e vi sono anche cattolici tra gli uccisi o feriti durante le operazioni di soccorso agli sfollati. In qualche modo la presenza, con varia consistenza, di battezzati tra le minoranze etniche li rende, agli occhi dei militari, simpatizzanti, se non apertamente conniventi con la reazione al regime che va intensificandosi e estendendosi, con il rischio che altri possano vivere l’esperienza dei musulmani Rohingya, espulsi con la forza e ora profughi in quasi un milione in Bangladesh.
Per loro, ancora recentemente Save the Children ha chiesto alla comunità internazionale di trovare una soluzione a lungo termine che affronti le cause profonde della situa- zione e consenta un ritorno sicuro, dignitoso e volontario in Myanmar non appena sarà possibile, senza però mancare di chiedere conto agli autori delle violenze contro questa etnia, gli stessi che dallo scorso febbraio hanno ripreso il potere con un golpe trovandosi di fronte a una resistenza estesa e inattesa. Alla richiesta di associarsi in un fronte comune avanzato dal governo di unità nazionale in esilio, hanno risposto anche diversi tra gruppi etnici che insieme sommano il 30 per cento dei 54 milioni di abitanti del Myanmar.
30%
la quota della popolazione (54 milioni gli abitanti) che fa parte delle minoranze
135
sono i gruppi etnici, in parte autoctoni, in parte presenti anche in altri Paesi confinanti
80mila
i combattenti nelle milizie etniche da decenni in conflitto con i governi militari
La loro è una forza armata complessiva, si stima, di 80mila uomini che potrebbe dare un contributo essenziale a un esercito federale impegnato in quella «responsabilità di proteggere», riconosciuta internazionalmente per contrastare i crimini contro l’umanità, ma come coordinare efficacemente le deboli forze del governo-ombra con le iniziative di autodifesa popolare sorte in città e villaggi contro i rastrellamenti e le violenze dei soldati, con le milizie etniche, una ventina, che continuano finora a operare nei territori di competenza, colpendo obiettivi strategici con la motivazione di proteggere la popolazione civile? La situazione resta fluida. Dieci dei gruppi firmatari dell’Accordo per il cessate il fuoco nazionale nel 2015 hanno annunciato la sospensione delle trattative con i generali, mentre le milizie Chin, Karen, Kachin, Rakhine, Shan, Kayah e altre hanno iniziato limitate attività offensive che sarebbero costate ai militari centinaia di morti. Gli ultimi scontri a Mongko, nello Stato di Shan, dove i ribelli hanno ucciso 23 soldati governativi al confine con la Cina. Altri venti militari fedeli al regime sono morti ieri in agguati a Yangon e nella regione centrale di Magway.
Da sapere. È cristiano il 6 per cento degli abitanti
Il 6 per cento della popolazione del Myanmar è di religione cristiana e tra le minoranze etniche raggiunge il 30 per cento. Percentuali variabili di cristiani si trovano tra diverse etnie, ma Kachin, Chin e Naga sono in maggioranza battezzati di varie denominazioni, soprattutto protestanti. La cristianità birmana sta avendo nella situazione attuale di crisi profonda numerose vittime della repressione, pastori arrestati, beni sequestrati, chiese distrutte senza fare però mancare, come continua a fare la Chiesa cattolica, condivisione e sostegno alla popolazione senza distinzione di fede o appartenenza etnica, negando legittimità al controllo militare ma cercando una soluzione negoziata alla crisi.