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REPORTAGE. Sul confine tunisino lo «tsunami dei migranti»

dal nostro inviato a Ras Jedir Claudio Monici martedì 1 marzo 2011
Tutto trafelato, Fuad Younnus si fa largo nella bolgia umana che la frontiera con la Libia espelle come un magma informe, disordinato, ma soprattutto dolente. L’egiziano, che è basso di statura, ondeggia di qua e di là, per via del fatto che sulla testa trasporta una valigia che quasi è larga come un letto matrimoniale. Dentro ci ha messo tutto quello che poteva. Per lo più vestiti e scarpe. Una radio a batterie, qualche provvista di carne in scatola, biscotti secchi per il viaggio e una bambola. Il regalo di compleanno, «il 12 giugno», per la figlia più piccola, Aisha: «Il dono lo riceverà in anticipo, ma quando non lo so dire, se mi guardo attorno. Ma quanti siamo qui? Come pensano di portarci via? Ma dove? Tutto mi sembra più complicato e impossibile adesso che quando sono scappato dalla Libia». «Non è stato difficile raggiungere Ras Jedir – sottolinea Younnus –. Però quanta paura. Si sentiva sparare, soprattutto di sera. Finalmente, quando con gli altri sono arrivato alla frontiera, i libici prima di farmi passare mi hanno portato via il telefonino. E così è successo a tanti egiziani come me che sono scappati da Tripoli per rifugiarsi in Tunisia sperando ti tornare in Egitto». E adesso? «Adesso non lo so. Quello che so è che io ho perso tutto quello che avevo di più grande per me e per la mia famiglia che aiutavo in Egitto: il mio lavoro di cameriere. Adesso di professione faccio il profugo che dovrà andare a cercarsi un mestiere da un’altra parte nel mondo. Durante la fuga, con i miei amici, si parlava tanto di Europa».Sudata di dolore e sofferente per un futuro incerto, sboccia come un fiore, già malato nelle sue drammatiche dimensioni destinate ad aumentare ancora, l’emergenza dei profughi che lasciano quella Libia che giorno dopo giorno si decompone nell’attesa dello scontro finale tra chi deve vincere e chi deve morire. La portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur), Liz Eyster, l’ha definita uno «tsunami di migranti».Nel punto di frontiera tunisino di Ras Jedir, sono centinaia di migliaia che si addensano sulla nuda terra, spossati dal viaggio, dalle privazioni, dal non sapere che cosa fare e dove andare. Senza gabinetti, e da giorni senza acqua per lavarsi. Centinaia di persone che vengono spinte dentro gli autobus di linea oppure nei pullman turistici tunisini come sardine in scatola per essere portati da qualche parte. Tantissimi si radunano per amicizia o per provenienza di città e villaggio, con la schiena stanca gettata su montagne di valigie, scatole e cartoni sigillati con nastro adesivo o pezzi di cavi elettrici come fosse spago da viaggio. Sfollati che vagano disordinatamente, mentre sui loro volti protetti da pastrani e caftani tirati fin sulla fronte, per ripararsi dal freddo del primo mattino, sembra di scorgere già l’ombra dell’incertezza per il loro futuro prossimo. C’è anche chi gioisce davanti alle telecamere di decine di troupe televisive e giornalisti internazionali, ma negli occhi di molti sembra di cogliere lo sguardo pudico di un bambino rimasto solo nel buio, quando di colpo è privato dei genitori. Quando è sradicato dalle sue certezze per essere gettato nel buio della strada e di fronte a una sola domanda: «Che cosa ne sarà della mia vita?». In un istante sospinta sul ciglio dell’incertezza dal vento della paura, della guerra. Come il passato ci ha fatto vedere, purtroppo, tante volte. E sono immagini che ricordano gli esodi del Kosovo, del Ruanda. Della povera gente, resa ancora più povera e sola.Mentre si fa molto preoccupato l’allarme lanciato dagli operatori umanitari sulla situazione dei profughi. Domenica al confine tunisino si parlava di 50.000 sfollati, quasi la metà egiziani. Senza alcun tipo organizzazione, se non quella scaturita dalle mani e dalla spontanea buona volontà espressa da decine e decine di civili tunisini nel nome «della solidarietà araba». Un aiuto schiamazzato dai clacson delle auto lanciate a tutta velocità sulla strada per Ras Jedir, con le bandiere tunisine e quella della Libia insorta, con il loro carico umanitario fatto di coperte, materassi e tante ceste di baguette per farne panini imbottiti di tonno. Una incredibile solidarietà, una “Protezione civile dei poveri” che andava incontro ad altri poveri che ancora non sono di nessuno, come tanti egiziani, abbiamo sentito, lamentavano nei confronti delle distratte e lontane autorità del Cairo.Per la portavoce dell’Acnur, Liz Eyster, «la priorità è provvedere per ognuno a cibo e accoglienza e per questo sono in arrivo 10.000 tende e cibo altamente proteico. Il passo successivo sarà spostare la gente dalle frontiera e per questo si stanno organizzando navi e aerei». Ma sono già 100.000, in particolare tra Tunisia ed Egitto, le persone che hanno abbandonato la Libia, secondo una stima dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati: «Facciamo appello perché la comunità internazionale risponda rapidamente e generosamente per aiutare i governi a fronteggiare l’emergenza», ha detto l’Alto commissario Antonio Guterres. Un messaggio d’aiuto che i tunisini non sono stati ad aspettare atteso pur di andare in soccorso subito alla massa di disperati in fuga dalla Libia. Nonostante anche la Tunisia si trovi ancora in alto mare. Nel pieno di una crisi politica del dopo Ben Ali che domenica sera ha portato alle dimissioni del governo di Mohammad Gannouchi. Dimissioni a cui si è arrivati con i continui disordini di piazza repressi con morti e feriti. Una situazione dagli sviluppi imprevedibili, per un Paese che è diventato un test per la democrazia nei Paesi arabi insorti contro i loro despoti. Tanto che l’Alto commissario Guterres ha voluto elogiare i tunisini per gli sforzi fatti nel fornire soccorso agli sfollati dalla Libia: «È encomiabile quello che sono stati capaci di fare».