Africa. Il Sudan torna in mano ai militari
I primi spari si sono sentiti lunedì mattina quando era ancora buio per i quartieri della capitale sudanese, Khartum. Con i primi raggi del sole le voci su un possibile colpo di Stato in corso avevano raggiunto la stampa internazionale e diversi funzionari governativi erano già in mano a un gruppo di «forze militari congiunte». Per il momento si registrano tre morti e oltre 80 feriti. «Le lotte e le ambizioni politiche mi hanno costretto a proteggere la sicurezza della nazione – ha dichiarato il generale Abdel Fattah Burhan, principale fautore del golpe e capo del Consiglio sovrano del Sudan che gestiva la transizione governativa in attesa delle elezioni previste per il 2023 –. L’esercito assicurerà il passaggio democratico fino all’attribuzione del potere a un governo eletto». Burhan ha anche annunciato l’imposizione di un coprifuoco e «lo scioglimento del consiglio dei ministri e del Consiglio sovrano».
Dopo la caduta nel 2019 dell’ex presidente, Omar el-Bashir, il Paese aveva formato una fragile coalizione tra i leader della società civile e i militari. Un accordo che però non si era mai consolidato. «Abbiamo arrestato diversi ministri civili del governo transitorio che si trovano per ora in luoghi segreti – hanno confermato lunedì mattina fonti dell’esercito sudanese –. Tra di essi c’è anche il premier, Abdallah Hamdok». Il golpe è avvenuto in differenti fasi. L’esercito ha prima occupato la residenza di Hamdok, arrestandolo. Poi è stato il turno di Hamza Baloul e Ibrahim al-Sheikh, rispettivamente ministro dell’Informazione e dell’Industria. I militari hanno in seguito proceduto all’arresto di molti altri leader della società civile e dei partiti politici. I golpisti hanno quindi occupato la sede della televisione nazionale per annunciare il golpe, mentre Internet e le linee telefoniche sono state subito bloccate. Intanto molti manifestanti scendevano nelle piazze di Khartum per esprimere la loro rabbia. «La folla ha bloccato le strade per protestare contro gli arresti dei funzionari governativi civili – ha riferito al-Hadath, un’emittente televisiva araba –. Le persone hanno bruciato pneumatici e si sono scontrate con le forze dell’ordine». Al grido di «Vogliamo la democrazia!», i sostenitori del potere civile affermavano che sarebbero stati disposti a «rischiare la vita» per impedire ai militari di riprendere le redini del Paese ricco di oro e per decenni esportatore chiave di ingenti risorse petrolifere nell’area. Almeno tre le vittime e un’ottantina i feriti negli scontri con i militari.
«Mi volevano costringere a legittimare questo golpe – ha detto Hamdok, il quale vuole che rimanga viva la rivoluzione civile in Sudan –. Non ho voluto aderire alle loro richieste e faccio appello al popolo sudanese affinché continui a protestare in modo pacifico». L’Associazione dei professionisti del Sudan, uno dei gruppi della società civile desiderosi di fare del Sudan uno Stato democratico, aveva denunciato la possibilità che si stesse preparando un golpe e ha invitato ieri i sudanesi a «resistere al brutale colpo di Stato erigendo barricate e occupando le strade». Ma nei giorni scorsi erano state diverse anche le manifestazioni pro-militari che accusavano il potere civile di effettuare riforme contro la tradizione e la cultura sudanese, ma soprattutto lamentavano il regime di austerity e la difficile situazione economica del Paese. Dopo giorni di proteste che hanno rafforzato il potere militare e indebolito quello civile, tanto la popolazione locale quanto la comunità internazionale si aspettavano gli ultimi eventi. E così la pentola a pressione sudanese è esplosa.