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Clima. Il no al carbone si ferma a quaranta, l'Italia tra i capofila dei Paesi «puliti»

Angela Napoletano, Glasgow venerdì 5 novembre 2021

Una centrale a carbone a Datteln, in Germania. L’accordo di ieri alla Cop26 non è stato però sottoscritto da Cina, India, Stati Uniti e Australia, tra i principali utilizzatori del combustibile fossile

Il premier britannico Boris Johnson, padrone di casa della Conferenza Onu sul clima (Cop26), ha sperato fino all’ultimo che da Glasgow, cuore della regione “nera” della Scozia, il Lanarkshire, per gli enormi giacimenti di carbone che per 300 anni hanno alimentato l’industria britannica, potesse arrivare l’accordo che avrebbe relegato al passato l’uso del minerale nero. Così non è stato. L’elenco dei Paesi che hanno rinnovato l’impegno a rinunciare in modo totale al più inquinante dei combustibili fossili, sia a livello domestico che internazionale, si è fermato a quota 40. Ne fa parte l’Italia insieme ad alcune delle nazioni, come Polonia, Indonesia, Sudafrica, Ucraina, Canada e Corea del Sud, che bruciano enormi quantità di carbone all’anno. Pesa tuttavia l’assenza, in parte prevista, dei Grandi: Stati Uniti, Cina, India e Australia.

La presidenza di Cop26, per usare le parole di Alok Sharma, ha esaltato la portata «storica» dello sforzo compiuto ai tavoli negoziali scozzesi «in vista» della rottamazione definitiva del carbone e del passaggio a fonti di energia pulita. Il termine entro cui la transizione deve compiersi è diverso a seconda del “peso” economico dei Paesi: il 2030 per le nazioni più sviluppate, il 2040 per quelle più piccole. Una controversa postilla, trapelata sulla stampa britannica, è stata prevista in entrambi i casi: «O il prima possibile negli anni a seguire». Precisazione che secondo gli addetti ai lavori dil uisce nel tempo l’obiettivo originario, completare la conversione all’energia verde entro la metà del secolo, per contenere l’innalzamento delle temperature entro 1,5 gradi.

Una serie di accordi collaterali a quello principale alleggerisce il peso dell’obiettivo mancato. Tra questi c’è l’iniziativa di 25 Paesi, tra cui Italia, Canada, Stati Uniti, Regno Unito e Danimarca, a sospendere entro il 2022 i finanziamenti esteri rivolti a progetti del comparto energetico basato sui combustibili fossili. Lo stesso faranno anche istituzioni finanziarie privare come HSBC, Fidelity International e Ethos. Vietnam, Marocco e Indonesia, per citarne un altro, si sono impegnati a non costruire più centrali a carbone. Altre 26 firme, tra cui quelle dei governanti di Cile e Singapore, si sono aggiunte anche alla Powering Past Coal Alliance del 2017 che raggiunge così oltre 160 adesioni nel mondo.

I negoziatori statunitensi rimasti a Glasgow cercano di minimizzare la mancata adesione di Washington all’“alleanza” dei Paesi che hanno detto di «no» al carbone spiegando che non è il momento, adesso, di scelte così nette che possono alterare equilibri politici già precari in vista delle elezioni di «mid term» del prossimo anno. Ma non è detto che in futuro possa farlo. Soprattutto se i costi del minerale, schizzati in neppure un anno da 70 a 300 dollari a tonnellata, continueranno a oscillare pericolosamente. Alla tentazione di guardare con ottimismo al futuro cede anche dall’Agenzia Internazionale per l’Energia (Iea) le cui stime dicono che se tutti gli impegni presi, ieri sul carbone e lunedì sul metano, vengono mantenuti l’innalzamento delle temperature potrebbe essere contenuto entro 1,8 gradi, soglia non lontana dal quell’1,5 inseguito dagli Accordi di Parigi.

Al futuro più pulito guardano anche i Paesi in via di sviluppo: Cop26 ha annunciato ieri anche nuove adesioni all’Alleanza verde per l’idrogeno di Africa e America Latina. La transizione energetica di Indonesia e Filippine avverrà con il supporto del Fondo per gli Investimenti sul clima e della Banca asiatica per lo sviluppo.