Paolo Brusasco manca da Mosul dal 2002. «Già allora la situazione si stava deteriorando – racconta –. Alcune zone della città erano chiamate Kandahar, come per dire che lì comandavano gli emuli dei taleban». Archeologo dell’Università di Genova, Brusasco ha condotto numerose campagne di scavo nel Vicino Oriente ed è stato fra i primi a denunciare il saccheggio in atto nella zona (suo il saggio
Tesori rubati, edito nel 2013 da Bruno Mondadori).
Professore, che cosa è veramente successo a Mosul? Quello che di solito succede nei territori occupati dallo Stato islamico: si vendono i reperti che è possibile smerciare e si distruggono quelli che non hanno mercato. Una logica che può apparire contraddittoria, ma che obbedisce sempre a un criterio di convenienza, economica o ideologica che sia.
È vero che molte delle opere distrutte erano in realtà copie? Di sicuro non erano copie i libri mandati al rogo nei giorni scorsi. Costituivano il patrimonio del museo di Mosul (il secondo per importanza in Iraq), della biblioteca dei Domenicani e di quella Centrale, che è stata addirittura fatta esplodere. Quanto al museo stesso, vanta una collezione molto articolata, che dalla preistoria arriva fino all’età islamica. Nel 2003, alla vigilia della Seconda guerra del Golfo, non meno di 1.500 pezzi tra i più preziosi, come quelli provenienti dal sito ellenistico di Hatra, sono stati portati in salvo a Baghdad, proprio per evitare razzie e distruzioni simili a quelle che già si erano verificate nel 1991. Quindi sì, ad andare in frantumi sono state più che altro riproduzioni in gesso. E anche i rilievi assiri che abbiamo visto vandalizzare erano repliche: gli originali sono conservati a Londra, presso il British Museum. Diverso, purtroppo, il discorso per quanto riguarda i due grandi tori alati con testa d’uomo.
Le statue colossali sfregiate a colpi di trapano? Esatto, sono raffigurazioni del
lamassu, il genio che vegliava sui portali delle regge assire. Nel famigerato filmato se ne riconoscono due: uno era conservato presso il museo, l’altro era ancora collocato in una delle porte dell’antica Ninive. Il rischio, a questo punto, è che lo Stato islamico voglia distruggere anche le mura.
Ci si è accaniti contro i lamassu perché sono raffigurazioni idolatriche? Più che altro perché, non essendo trasportabili, non avevano valore commerciale. Nel Corano, del resto, non c’è alcun invito a distruggere gli idoli. Si tratta di un’interpretazione estremistica, tipica del- la scuola wahhabita, appellandosi alla quale i miliziani dell’Is stanno distruggendo decine di moschee funerarie, considerate luoghi di idolatria perché conservano le tombe di imam, sufi e profeti del passato.
Quanto guadagna lo Stato islamico dal traffico di reperti? Dopo il commercio illegale di petrolio, questa è la sua seconda fonte di finanziamento, basata su una struttura di tipo mafioso, un vero e proprio racket che prevede il subappalto a bande di criminali locali e sfrutta la complicità di alcuni archeologi professionisti. La cifra complessiva non è nota, tuttavia fonti di intelligence hanno rivelato che, ancora prima della conquista di Mosul, l’Is aveva ricavato 36 milioni di euro dallo sfruttamento di un solo sito di scavi clandestini. Ma il quadro complessivo è ancora più allarmante.
Perché? Perché lo Stato islamico non è l’unico a trarre profitto da questa situazione. A Beirut, per esempio, sono state sequestrate alcune statue provenienti da Palmira, vale a dire da una parte della Siria che è ancora controllata dalle truppe di Assad. E anche in Turchia procurarsi una tavoletta cuneiforme, una moneta antica o un sigillo è tutt’altro che impossibile.