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India. Padre Stan: «Resto in cella assieme agli altri reclusi»

Lucia Capuzzi sabato 22 maggio 2021

Il padre gesuita Stan Swamy, 84 anni

«La cauzione non è discussione». Ancora una volta, venerdì, i giudici hanno rifiutato il rilascio a padre Stan Swamy, 84 anni, recluso nel carcere di Taloja dall’8 ottobre scorso. La difesa aveva presentato la nuova richiesta in base al drastico peggioramento della salute del gesuita.
Già malato di Parkinson, da oltre una settimana, il sacerdote soffre di sintomi compatibili al Covid. Ormai Stan non riesce più a camminare, a scrivere, a mangiare da solo. «Sono i miei compagni di detenzione ad imboccarmi», ha spiegato all’Alta Corte di Mumbai, collegato in video-conferenza. Visibilmente prostrato, il sacerdote riusciva a sentire le domande, hanno riferito i pochi presenti dato che l’udienza era a porte chiuse. Eppure – hanno confermato – il suo spirito è rimasto fermo. Quando i togati gli hanno offerto una scappatoia – un ricovero temporaneo in ospedale per le cure – ha rifiutato. Un gesto forte, in linea con la scelta fatta da Stan decenni fa e mai tradita: camminare al fianco degli ultimi fra gli ultimi. La minoranza Adivasi del Jharkhand, nello specifico, vittima dell’esproprio sistematico della terra da parte delle compagnie minerarie alleate con le autorità locali. La stessa ragione che l’ha portato ad essere accusato di «terrorismo» senza prove e incarcerato, come molti altri leader Adivasi. «La prigione di Taloja mi ha ridotto in questo stato, strappandomi pezzo a pezzo salute e autonomia – ha detto il gesuita ai giudici con un filo di voce, lasciando stupefatti e commossi i suoi stessi legali –. Ma accetto il mio dolore. Se devo morire, morirò. Non voglio privilegi. Non sarebbe giusto per quanti patiscono con me, gli altri quindici reclusi con le mie stesse accuse, la cui vicinanza mi è di grande conforto».
Di nuovo, padre Swamy ha rinnovato la richiesta di cauzione per «poter tornare a Ranchi dagli Adivasi, hanno molta necessità della mia assistenza, ora sono soli». «È il solito Stan – ha sottolineato il confratello Xavier Jeyaraj, segretario per la Giustizia sociale e l’ecologia della Compagnia di Gesù –: sempre preoccupato per la sua gente, i nativi, e mai per se. Come compagno gesuita e amico, avrei voluto che accettasse il ricovero, per il suo bene. Ma comprendo perché non l’ha fatto. Stan chiede giustizia non favori, non solo per lui ma per tutti coloro che sono imprigionati ingiustamente. La sua è una voce profetica». La Corte, per ora, ha preso tempo: la questione verrà discussa dal 7 giugno. Nella speranza che Stan resista.