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Il ritorno. Ex casco blu olandese al Memoriale di Srebrenica per trovare il «perdono»

Riccardo Michelucci lunedì 18 settembre 2023

Le stele con i nomi celle vittime dell'eccidio di Srebrenica nel mausoleo di Potocari

Quando il memoriale del genocidio fu inaugurato da Bill Clinton il 20 settembre 2003, l’auspicio era che favorisse la costruzione di una memoria condivisa e incoraggiasse il ritorno dei bosniaci musulmani nei luoghi da dove erano stati scacciati dopo una feroce pulizia etnica. Ma a distanza di vent’anni non restano altro che speranze tradite, memorie vilipese e sensi di colpa. La più terribile tragedia europea dai tempi dell’Olocausto avvenne proprio qua, lungo la valle della Drina, le cui acque segnano il confine tra la Bosnia e la Serbia. La città, adagiata in cima a una gola verdeggiante, è ancora oggi avvolta in un silenzio surreale. I cani sonnecchiano per terra, distesi sotto un sole cocente. Persino l’arrivo di un piccolo gruppo di stranieri è vissuto come un evento che rompe la monotonia quotidiana dei pochi abitanti. La stazione degli autobus è stata chiusa definitivamente quattro anni fa. Molti edifici, in stato di abbandono, portano ancora i segni della guerra. Alcuni negozi che avevano provato a riaprire si sono arresi di nuovo. Secondo l’ultimo censimento demografico la città ha perso circa due terzi degli abitanti di prima della guerra. Nel 1991 erano 36mila, in prevalenza musulmani, adesso sono meno di 10mila. Oggi la città si trova nel cuore della Repubblica serba di Bosnia, circondata da villaggi spettrali che non sono mai riusciti a rinascere, abbandonati dai sopravvissuti e ripopolati con una sostituzione etnica che ha dato ragione ai carnefici. Mentre i politici nazionalisti alimentano una lettura distorta della storia. «Il negazionismo è il veleno che sta uccidendo l’intera area e ci impedisce di fare i conti con il passato», denuncia Azir Osmanovic, che è riuscito a salvarsi perché all’epoca aveva solo 13 anni. «Eppure oltre cinquanta sentenze di tribunali locali e internazionali hanno affermato che quanto accadde fu un genocidio».

Il memoriale di Potocari a Sebrenica - Ansa

Il Memoriale di Potocari, a pochi chilometri da Srebrenica. è un luogo che toglie il fiato. Migliaia di lapidi, a perdita d’occhio, punteggiano il campo in cui gli uomini musulmani si trovarono ad aspettare la morte nell’estate del 1995. Davanti ci sono ancora i resti del complesso industriale che ospitava la base dell’Onu. C’è un uomo dall’aria smarrita che da qualche giorno si aggira nei dintorni della struttura. Si bagna i piedi nella grande fontana, si ripara dalla calura sotto il tetto della moschea che domina l’ingresso. Il suo nome è Emil. Nel 1995 era un soldato del Dutchbat, il contingente di caschi blu olandesi che non mosse un dito per scongiurare il massacro compiuto dagli uomini del generale Ratko Mladic. «Da allora sono devastato dai sensi di colpa», ci confessa. «Dopo tanto tempo ho trovato finalmente il coraggio di tornare qua per chiedere perdono alla gente, anche se quelli come me non hanno alcuna colpa perché non potevano fare niente». «All’epoca avevo appena diciotto anni, mi ero arruolato da poco e presidiavo uno dei posti di osservazione intorno all’enclave. Quando ho fatto ritorno a casa mi hanno diagnosticato una grave forma di depressione e ho tentato il suicidio un paio di volte. Nel nostro paese quelli come me sono ancora considerati dei vigliacchi o addirittura i complici dei massacratori. Qui invece mi sento accettato».

Il comportamento degli uomini del Dutchbat resta ancora oggi uno degli aspetti più controversi nella ricostruzione della strage. Il Tribunale dell’Aja ha riconosciuto l’Olanda civilmente responsabile imputando agli olandesi le morti avvenute entro i confini dell’area protetta stabilita dalle Nazioni Unite. Gli ex caschi blu, che erano numericamente inferiori rispetto agli assedianti, sostengono invece di essere stati bloccati da regole d’ingaggio troppo restrittive. “Furono Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti a vanificare la missione”, accusa l’ex soldato prima di mostrarci un disegno. «Me lo regalò un bambino al quale passavo del cibo di nascosto. Credo si chiamasse Nerfed, se fosse sopravvissuto mi piacerebbe incontrarlo di nuovo».