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Reportage. Cairo, sopravvivere (da cristiani) nel quartiere discarica

Lucia Capuzzi sabato 15 aprile 2017

Spunta d’un tratto, nel bel mezzo di un consueto ingorgo. Trainato da un asino spelacchiato, il carretto si infila negli spazi tra le auto. Un’immagine “inappropriata” alla giungla metropolitana cairota. Chilometro dopo chilometro, però, i veicoli a trazione animale aumentano. Insieme all’immondizia ai bordi della strada. L’“altra Cairo” comincia gradualmente. Per poi mostrarsi in tutta la sua potenza visiva nella «discarica». Non è necessario aggiungere specifiche per gli abitanti di Eizbet el-Nakhl, la «piantagione di palma». Di palme, però, non c’è traccia in questo quartiere alla periferia nord-occidentale della capitale egiziana. «La discarica ha divorato il verde», dicono i residenti. O meglio ha inquinato le falde acquifere che lo alimentavano.


Ogni cosa, nel male e nel bene, nel sobborgo ruota intorno al gigantesco immondezzaio senza nome. Il “popolo della zibala” (immondezzaio) estrae dai rifiuti le magre risorse disponibili per sopravvivere. A fatica. E, il più delle volte, non a lungo. La cernita e il riciclo di quanto raccolto porta a porta è fatto a mani nude: le infezioni – in particolare l’epatite C –, dunque, sono all’ordine del giorno. Un lavoro «impuro». Anticamente svolto dai copti immigrati dall’interno dell’Egitto. Ora, però, la miseria ha finito per prevalere sulla “barriera religiosa”: anche tanti «zabbalin» di Eizbet el-Nakhl sono islamici. Poveri cristiani e musulmani condividono gli stessi carretti sgangherati su cui caricare l’immondizia, i medesimi makhazin – magazzini dove viene fatta la selezione – e un’uguale paga, intorno ai due euro al giorno. Delle stragi della Domenica delle Palme arriva appena un’eco lontana, portata dai soldati che blindano la locale chiesa copto-ortodossa di Mare-Gergis (San Giorgio). Il dialogo qui è un elemento di sussistenza.

Da questo presupposto, è partito quindici anni fa un gruppo di cattolici, ortodossi, protestanti, musulmani per creare “Hadaret Sakkara”, la civiltà di Sakkara. «Abbiamo preso il nome di uno dei grandi architetti d’Egitto, quello che ha costruito l’antica piramide a scaloni. Per ricordare che pluralità e cultura sono nel Dna dell’identità egiziana », spiega il professor Ahmad, uno dei fondatori dell’iniziativa. Ad ispirarla, un sacerdote cattolico (che preferisce rimanere in incognito), da sempre impegnato nel dialogo per la promozione umana. Perché quest’ultimo è «un dialogo di attenzione ed amore per gli ultimi ».


Come gli zabbalin. È stato lui a comprendere che solo l’istruzione avrebbe consentito ai bambini – islamici e cristiani – di vivere davvero. Trasformando il «dialogo del fare» nell’anticorpo contro ogni forma di discriminazione, diffidenza, estremismo. Un’idea concreta. Come le pareti del centro scolastico, il cuore di Sakkara. Non una vera e propria scuola. Quella esiste già ad Eizbet el-Nakhl e i ragazzini la frequentano, seppur nei ritagli di tempo che lascia loro il riciclo accanto ai genitori. L’istituto pubblico, però, ha pochi mezzi ed è perennemente sovraffollato. Le famiglie, analfabete, poi, non possono seguirli né pagare loro delle lezioni private. La maggior parte dei ragazzi, dunque, finisce per abbandonare dopo una sfilza di bocciature.


Non i piccoli – tra i 500 e i 600 all’anno – che seguono il centro. Qua, gli studenti, divisi in gruppi, ricevono tre ore di lezioni di recupero in orario extrascolastico. Un supporto educativo di qualità e gratuito, aperto a tutti. «C’è una condizione inderogabile per venir ammessi: essere poveri. Anzi i più poveri tra i poveri. Dobbiamo scegliere, dato che abbiamo sempre più richieste rispetto ai posti disponibili», dice Ahmad. Per il resto, i volontari di Sakkara non fanno distinzioni. Nel centro non si parla di religione. Ci si «limita» a viverla. Ogni giorno. Nella testimonianza concreta. E nel rispetto delle reciproche differenze. «È proprio questo a renderci credibili di fronte alle famiglie. Certo, c’è voluta pazienza per spiegarlo, ai residenti», racconta Lilian, insegnante di inglese, copta. Le fa eco Dalia, supervisore del centro e musulmana: «Ora i genitori hanno grande fiducia in noi».


Ed essa è ripagata da ottimi risultati. Almeno il sessanta per cento degli allievi riesce ad andare avanti negli studi, perlomeno di base. Non mancano, poi, storie come quella di Marcos, orfano: il padre è stato stroncato dal tetano, preso dopo essersi ferito un piede con un chiodo arrugginito. In casa non c’erano soldi per le medicine. Moglie e figli, dunque, l’hanno visto morire impotenti. Poi, la vedova ne ha preso il posto nella raccolta dei rifiuti. Tutti i pomeriggi, Marcos aiutava la madre. Spesso, a scuola, era così stanco che dormiva. Senza l’aiuto del centro non sarebbe riuscito nemmeno a finire le primarie. Ora, invece, si è laureato in farmacia. Mohammad s’è presentato da Sakkara con un moncherino al posto della mano destra. La macchina per la lavorazione dell’alluminio gliel’aveva tranciata pochi mesi prima. Non avrebbe più potuto fare lavori manuali.


La scuola era l’unica alternativa a un’esistenza da mendicante. Da solo, però, non riusciva. A vederlo ora, brillante neolaureato in Scienze, non si direbbe. «Ci sono tanti ragazzi davvero intelligenti. Hanno solo bisogno di un’opportunità – ripetono da Sakkara –. La sfida è riuscire a dargliela, pur con i nostri pochi mezzi». La fondazione va avanti solo grazie agli aiuti e la preghiera degli amici, anche italiani. Come l’italo-egiziano George Costantin Canelli che sta dando una mano per costruire un centro più grande. I figli del popolo della “zibala” sono tanti.