Mondo

SCHIAVI 2008. Sono ancora 27 milioni per lo più donne e bimbi

Elena L. Pasquini martedì 2 dicembre 2008
Sono passati oltre duecento anni da quando l’Inghilterra, per prima, abolì la tratta degli schiavi, eppure gli uomini che vivono in condizioni servili, costretti al lavoro forzato, spesso privati dei più elementari diritti, imprigionati, persino stuprati, torturati, denutriti, a volte uccisi, sono milioni: non meno di 12,3, secondo l’Organizzazione Internazionale del lavoro (Oil) che sottolinea, però, come le stime dei ricercatori ritengano verosimile il dato di 27 milioni. Nessun paese al mondo, neppure l’Europa industrializzata e democratica, può dirsi immune da questa piaga.«È una realtà anche nel mondo contemporaneo e si è evoluta in modalità diverse e crudeli», ha detto Gulnara Shahinian, relatore speciale dell’Onu, annunciando la Giornata internazionale per l’abolizione della schiavitù, che ricorre oggi. «La schiavitù non è storia e nonostante i progressi, gli sforzi profusi sembrano insufficienti». «Ogni lavoro estorto a una persona sotto minaccia di una punizione o per il quale detta persona non si sia offerta spontaneamente», questa la schiavitù come definita dalla Convenzione internazionale del 1930, essendo la punizione da intendersi in senso lato, anche come perdita di diritti e privilegi. Secondo l’Oil, non meno di un lavoratore ogni 1000, di cui circa 2,4 milioni vittime della tratta, vive antiche e nuove forme di schiavitù. In alcuni casi, le radici affondano in «discriminazioni verso i gruppi più vulnerabili della società, caste inferiori, minoranze tribali e popolazioni indigene», ma il più delle volte è un mercato spietato e senza regole a chiedere manodopera a costo zero. Molti i bambini: secondo l’Unicef a lavorare sarebbe uno ogni sei, il 69 per cento impiegato in agricoltura. In totale, l’80 per cento delle vittime è schiavo di privati – proprietari terrieri, grandi e piccole imprese, famiglie. Lavorano in agricoltura, nella pesca, nelle fabbriche di mattoni, nelle miniere, nell’industria della moda e vengono ridotti in schiavitù anche attraverso strumenti che sono retaggio di un passato feudale, come la pratica di costringere al lavoro per ripagare un debito. Accade in America Latina dove le popolazioni più povere sono costrette, per sopravvivere, a chiedere prestiti a proprietari ed intermediari e per rifonderli devono lavorare nella produzione di zucchero o carbone, nelle foreste o nelle piantagioni. Accade nell’Asia del Sud, in Bangladesh, in India, in Pakistan, dove la schiavitù non dura una stagione, ma si trasmette di generazione in generazione. Sono le aree rurali più povere e remote che vivono il fenomeno dei "trasferimenti" di manodopera coatta e indebitata nelle miniere e nelle terre da coltivare grazie a contractors indipendenti che prestano soldi ai poveri e "rivendono" gli schiavi alle imprese. Schiavi, a cui si impedisce l’allontanamento dal posto di lavoro attraverso forme più o meno dure di coercizione.Agricoltura, pesca ed industria alimentare sono tra i settori in cui più consistente è l’impiego di lavoratori in condizioni servili: nelle foreste dell’Amazzonia, nelle piantagioni di cacao dell’Africa Occidentale, nei paesi dell’America Latina dove il salario è appena un po’ di cibo e qualche vestito. Le cronache raccontano dei bambini del Ghana venduti dai genitori per poche decine di dollari e sfruttati nella pesca nel Volta, degli schiavi nelle piantagioni di canna da zucchero del Brasile per la produzione di biocarburanti, come denunciato a novembre dalla Commissione Pastorale della Terra durante la Conferenza Internazionale sui biocarburanti. Un fenomeno antico, monitorato dall’Oil ed analizzato in un rapporto dell’International Transport Workers’ Federation, è anche quello degli equipaggi di marinai e pescatori abbandonati dagli armatori dopo averne sfruttato il lavoro: «In molti casi non hanno ricevuto paghe per mesi, a volte per anni e si sono trovati in vere condizioni di lavoro forzato, a rischio della vita». Abusi sono stati riferiti anche all’interno di informali scuole coraniche in Africa «che dopo aver promesso istruzione, obbligavano i ragazzi a lavorare o a chiedere l’elemosina. Ma particolarmente vulnerabili al lavoro forzato sono i lavoratori domestici, per la natura non protetta di questo mestiere e per la relazione molto personale che si instaura con il datore di lavoro», si legge nei documenti dell’Oil. A luglio Human Rights Watch (Hrw), dopo due anni di ricerche, ha denunciato gli abusi a cui sono sottoposti i domestici in Arabia Saudita: «mesi, anni di salari non pagati, fino a diciotto ore di lavoro, sette giorni su sette, violenza fisica e sessuale» e chi si ribella rischia di essere accusato «di furto, adulterio, stregoneria». «Sono trattati come schiavi virtuali», ha detto Nisha Varia, ricercatore nella divisione diritti delle donne di Hrw e «molte delle intervistate non denunciano per paura di essere accusate». Il 20 per cento degli schiavi, invece, è costretto al lavoro forzato dallo Stato. «Nei lavori pubblici, sotto la minaccia da parte dei militari, per lunghi periodi e senza un’adeguata remunerazione», per costruire strade, per realizzare opere pubbliche, come in Myanmar, dove si ritiene che questa sia una pratica sistematica. Lavoro forzato nelle prigioni per "rieducare" i dissidenti politici o chi professa una fede religiosa, come in Cina. Lavoro forzato che i detenuti svolgono fuori dalle prigioni, a salari bassissimi e senza alcun potere contrattuale. Un fenomeno accresciuto dalla «partnership tra pubblico e privato nella gestione degli istituti di pena, dall’impiego di detenuti da parte di imprese non solo in Cina, ma anche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti», recitano i documenti dell’Oil. E il lavoro forzato esiste anche in Europa, risultato in larga parte del traffico di esseri umani: sono circa 360mila gli «schiavi» nei Paesi industrializzati: «Non può essere negato che l’immigrazione illegale sia un grande business per la criminalità, ma lo sfruttamento ha luogo per lo più nei principali settori economici come l’agricoltura, le costruzioni e i servizi».