l primo allarme è stato lanciato dall’Onu di Ginevra il 28 giugno. «Due stagioni di scarse piogge hanno determinato la peggiore siccità nel Corno d’Africa degli ultimi sessant’anni», aveva dichiarato Elisabeth Byrs, portavoce dell’Ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha): «Molte zone pastorali sono in stato d’emergenza» E domani le Nazioni Unite si apprestano a dichiarare lo «stato ci carestia», l’ultimo livello nella scala di gravità. Con oltre dieci milioni di persone minacciate, le zone più colpite dalla siccità si trovano in Kenya, Somalia, Etiopia, Gibuti e Uganda. E a più di due settimane dalle dichiarazioni dell’Onu, la situazione invece di migliorare sta peggiorando. Le agenzie umanitarie hanno iniziato una campagna d’informazione con l’obiettivo di raccogliere più fondi possibili. Ieri il governo inglese ha donato sessanta milioni di euro per affrontare tale emergenza e le autorità keniote hanno approvato l’espansione di una delle sezioni del gigantesco campo di rifugiati di Dadaab al confine somalo.
Sabbia, arbusti e un sole cocente. Sono questi gli ingredienti basici del più grande campo per rifugiati al mondo, Dadaab, situato nel nord-est del Kenya, vicino al confine con la Somalia. A vent’anni dalla sua nascita, il campo, una fetta di terra grande quanto la città di Firenze, sta vivendo il peggior periodo della sua triste storia. Originariamente le autorità keniote e le agenzie umanitarie avevano stabilito che il campo fosse costruito per ospitare 90mila rifugiati. Ora, in questo inferno dantesco, ce ne sono più 400mila. E il numero è destinato ad aumentare vertiginosamente. Il governo di Nairobi, sotto pressione delle Nazioni Unite, ha dovuto aprire una quarta sezione, Ifo-2, oltre alle tre che già esistevano: Ifo, Dagahaley, e Hagadera. Ed è nel Blocco N-Zero, facente parte della sezione Ifo, che Amina sta aspettando di capire che ne sarà della sua vita. Lei è una delle 10 milioni di vittime che, secondo i dati dell’Onu, sono minacciate dalla più grave siccità del Corno d’Africa dagli anni Cinquanta. A quattordici anni, Amina è al settimo mese di gravidanza. È arrivata nel campo due settimane fa insieme ad alcuni suoi parenti dopo un viaggio di ventisei giorni iniziato nella Somalia meridionale.Durante il tragitto, percorso interamente a piedi, ha rischiato di essere attaccata da iene e leoni, o derubata dai banditi che brulicano in questa terra di nessuno. «Siamo stati fortunati», confessa davanti alla sua capanna, costruita con stracci, sacchetti di plastica e rami secchi: «Durante il cammino siamo stati aiutati dalle persone che incontravamo. A volte ci davano da mangiare carne di capra, altre volte siamo stati costretti a fare l’elemosina». Amina si è sposata a dodici anni, e suo marito l’ha dovuta lasciare per cercare lavoro a Chisimaio, uno dei covi dei ribelli qaedisti di al-shabaab. «Con la mia famiglia stiamo aspettando di essere registrati come rifugiati», continua questa giovanissima donna: «Poi le cose dovrebbero andare meglio». Amina purtroppo non sa che la registrazione non le garantirà che qualche scorta cibaria e un minimo di materiale per vivere. Se sarà fortunata. Ogni giorno arrivano nuovi rifugiati in cerca di riparo, cibo e cure mediche. Le agenzie umanitarie, infatti, riconoscono che quella di Dadaab è una situazione disperata. «Stanno arrivando troppi rifugiati», afferma una preoccupatissima Alima Ahmed, operatrice umanitaria: «Quando giungono nei campi sono esausti, disidratati e spaventati. Molti di loro hanno camminato per due mesi e hanno visto i loro cari morire per la strada». Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur), Dadaab riceveva in media tra i 6mila e 8mila rifugiati al mese durante il 2010. Quest’anno, per via della siccità e della guerra civile in Somalia, le cifre parlano di 10mila disperati al mese e il cui numero ha continuato a crescere nelle ultime settimane. Secondo le diverse agenzie umanitarie, che non nascondono le difficoltà nel gestire tale situazione, i bambini sono le prime vittime di questa carestia. «Ci sono altissimi livelli di malnutrizione tra i minori, soprattutto quelli che hanno meno di cinque anni», conferma Monica Rull, a capo dei progetti di Medici senza frontiere in Kenya e Somalia.