«Dottore, adesso è il tuo turno». Uno sfregio per il regime siriano quell’inneggiare – subito dopo la caduta di Ben Ali e Mubarak – alla fine di Bashar al-Assad con una scritta sui muri di Daraa. Fu in quella provincia a 100 chilometri da Damasco che si innescò la protesta contro Bashar Assad, il figlio di Hafez strappato dalla dinastia agli studi di oculistica a Londra.Ogni rivolta necessita di simboli, ma l’esito finale in Medio Oriente non è mai uguale a se stesso. All’inizio del 2011 il rogo del fruttivendolo Mohamed Bouazizi fu la scintilla che fece divampare dalla Tunisia all’Egitto fino alla Libia le speranze – ora in gran parte tradite – delle Primavere arabe. Quel graffitto di giovani studenti siriani – il cui arresto e le torture subite innescarono nella città la prima grande manifestazione del 15 marzo 2011 – è invece l’icona di una tragedia che paralizza l’intera regione, mette in scacco Onu e superpotenze lasciando sul terreno solo perdenti.Due anni dopo è certamente sconfitto il regime alauita, ostinato nella sua cieca follia di poter reprimere militarmente una rivolta popolare covata in 40 anni di risentimento. I ventimila morti di Hama, nel 1982, durante la sollevazione dei Fratelli musulmani rappresentavano il picco di un terrore che sembrava irripetibile, ma ora è stato doppiato due volte dalle 90mila vittime della guerra civile.E un milione di profughi sparsi nei Paesi vicini. Le accuse di «crimini contro l’umanità» e il minacciato ricorso alla Corte penale internazionale sono come un mantra che ritma la paranoia di un regime che non si rassegna ad avere i giorni contati. Sconfitta è pure una opposizione che sperava, con una sollevazione inizialmente genuinamente popolare e pacifica, nell’implosione del regime confidando pure nell’appoggio della comunità internazionale. Un maldestro calco del «modello Libia», subito abbandonato dall’Occidente, che ha tramutato la sollevazione in una trappola mortale. La progressiva militarizzazione dei ribelli ne ha pure mostrato tutte le ambiguità: accuse di aver commesso crimini di guerra come il regime, mentre per tutto il 2012 andava in scena un “conflitto asimmetrico”. Un esercito regolare contro una galassia di milizie e bande che l’Esercito libero siriano si sforza di rappresentare senza poter controllare. La presenza jihadista – in particolare del gruppo di Jabhath al-Nusra affiliato ad al-Qaeda – mostra come le genuine richieste di libertà e riforme, siano ora in parte ostaggio di interessi internazionali. Una guerra per procura in cui l’elemento popolare – che andrebbe doverosamente aiutato a svilupparsi – rischia solo il pretesto degli interessi incrociati di Turchia, Arabia Saudita e Qatar da un lato, Iran e Russia dall’altro. Sconfitta pure la comunità internazionale che, visto naufragare il generoso tentativo di mediazione di Kofi Annan, ha registrato solo di recente un timido cambio di passo: il 28 febbraio al vertice di Roma degli “Amici della Siria” il nuovo segretario di Stato Usa John Kerry ha promesso 60 milioni di dollari in «aiuti non letali» all’opposizione. Un approccio condiviso pure dalla Gran Bretagna sempre più insofferente all’embargo che impedisce di dare aiuti militari ai ribelli. Un equilibrismo diplomatico con il condivisibile scopo di avviare una reale transizione che sconfigga il regime, non offenda il radicato nazionalismo dei ribelli e soprattutto sconfigga politicamente all’interno della rivolta stessa il jihadismo. Non è un caso che la proclamazione di un governo di transizione continua a slittare nonostante la corsa degli ultimi due mesi a riconoscere la Coalizione nazionale siriana. Questo cartello, creato l’11 novembre dell’anno scorso a Doha allargando la base del Consiglio nazionale monopolizzato dai Fratelli musulmani pare però più funzionale alla ricerca di un interlocutore a tutti i costi, che alla reale rappresentatività di questi oppositori. I molti che non intervengono con decisione perché temono un nuovo Afghanistan e i progetti di un califfato di Siria, presto scopriranno – sostengono molti osservatori – che l’inerzia e la lentezza estenuante dei vari “pendoli diplomatici” (con un milione di profughi siriani nei Paesi limitrofi) porterà presto alla internazionalizzazione del conflitto. «A chi diamo le armi?» è il dubbio legittimo espresso ancora recentemente da Hillary Clinton, ma lasciare che dai confini porosi passino guerriglieri e fondi legati al jihadismo è una certezza.