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Damasco. In Siria il virus «contagia» anche il pane. E a Idlib non si fanno i tamponi

Luca Geronico sabato 18 aprile 2020

Una bimba profuga con la mascherina nel campo di Maarat Masrin, a nord di Idlib

Coprifuoco prorogato fino al 2 maggio, in Siria, per mantenere il distanziamento sociale mentre emergono forti dubbi sulla reale entità del contagio. E intanto la lotta al coronavirus, a Damasco e in tutte le principali città, si sta trasformando in una tremenda «crisi del pane». Sono 25 i contagiati e due le vittime da Covid-19, secondo l’agenzia ufficiale "Sana", in un Paese che dopo 9 anni di guerra civile ha più del 50% delle strutture sanitaria distrutte. Una carenza non solo di cure, ma anche di possibilità diagnostica se, come denunciato da "al-Jazeera" nei distretti di Idlib e Aleppo, almeno nelle zone sotto il controllo turco, vi è una sola macchina per eseguire i test di laboratorio: solo un centinaio gli accertamenti effettuati nella “provincia ribelle” nonostante l’Oms abbia inviato migliaia di tamponi.

Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, che cita fonti mediche vicine al regime, i casi accertatati di coronavirus sarebbero 26 a Latakia, 16 a Tartus, 30 ad Aleppo e Damasco mentre circa 500 persone quelle messe in quarantena per poi dimetterne un centinaio perché risultate negative. Un contagio che parrebbe ancora contenuto, ma con cifre più alte di quelle ufficiali e con il sospetto che l’epidemia sia in realtà già molto più grave. Il sito di "al-Arabiya" riferisce di un «gran numero di forze del regime contagiate a causa del contatto con le forze iraniane». Secondo l’Osservatorio siriano la milizia Fatimiyoun e alcune milizie filo-iraniane di combattenti stranieri sono ormai infette con numerosi ricoveri nell’ospedale di Boukamal.

Un contagio, sostengono i media, che ha raggiunto anche i soldati russi di stanza nella base di Tartus mentre numerosi Hezbollah rientrati in Libano dalla Siria denunciavano chiari sintomi assimilabili a quelli del Covid. In Libano, osserva Operazione Colomba – il corpo non violento di pace della Associazione Papa Giovanni XXIII – per chi vive nei campi profughi o in garage «l’auto-isolamento è particolarmente difficile, considerando l’accesso sempre più limitato al lavoro e alle organizzazioni di soccorso». Nella valle della Bekaa e nella zona di Tripoli, prosegue Operazione Colomba, «si moltiplicano le minacce di sfratto ai siriani che non possono più pagare l’affitto» mentre le violazioni dei diritti umani rendono insostenibile la situazione per questi profughi.

Un contagio che all’interno della Siria, oltre che nei campi profughi e fra le milizie straniere, avrebbe un altro “epicentro”. Nel sobborgo di Sayyida Zeinab, tradizionale meta di pellegrinaggio degli sciiti al mausoleo della figlia di Ali, l’arrivo dei pellegrini da Iran, Iraq e Pakistan non si mai è interrotto nonostante le numerose proteste.

Intanto, da quando un mese fa è stato imposto il coprifuoco, il “pacchetto di pane” è diventato quasi un miraggio. Incluso, per evitare le sempre più lunghe file ai forni, nei beni garantiti da una “Smart card” dovrebbe essere garantito dai forni ufficiali, dai negozi e dai comitati di quartiere. Un tentativo di bloccare una evidente speculazione sul pane in un Paese tradizionalmente considerato il granaio del Medio Oriente.

Nel 2011 la Siria produceva 4 milioni di tonnellate di grano mentre l’anno scorso la produzione è scesa a 1,2 milioni di tonnellate. La battaglia nelle terre fino al 2017 sotto il controllo del Daesh ha rallentato o impedito la produzione, mentre molti agricoltori sono accusati da Damasco di vendere il raccolto alla Forze democratiche siriane che controllano il Rojava (Kurdistan siriano). Ma il “pacchetto di pane” spesso non arriva mentre al mercato nero, in un mese, il prezzo è aumentato in un mese da 500 a 1.000 lire siriane, pari a circa un dollaro circa quando una stipendio medio è di circa 40 dollari. Pane razionato, una nuova “linea rossa” psicologica superata che preoccupa l’opposizione. «Quello che si teme è un uso strumentale della crisi del pane e del coronavirus da parte del regime per promuovere una campagna per la rimozione dell’embargo», dichiara ad "Avvenire" Sami F. Un pane amaro e nero in Siria, nell’era del coronavirus.