Mondo

Siria. Il bimbo cresciuto nel carcere di Assad: non sa cos'è un albero

Luca Geronico sabato 14 dicembre 2024

Una donna mostra l'orrore di una cella del carcere di Sednaya, fuori Damasco

Come dei murati vivi, ora le vittime dei servizi segreti del regime di Assad rivedono la luce del giorno. Un ritorno alla vita pieno di incredulità, e il ritorno alla libertà mostra al mondo ferite, in particolare dell'anima, che hanno dell'incredibile. «Abbiamo in cura un'ex detenuta che ha trascorso otto anni nella prigione di Sednaya. Oggi ha 27 anni» riferiscono Omar al-Omar, responsabile delle attività di salute mentale di Medici senza Frontiere a Idlib, e Bilal Mahmood Alsarakibi, responsabile medico sempre di Msf.​ La donna, spiegano i sanitari, è entrata in prigione con suo figlio che all’epoca aveva 3 mesi e oggi ha 8 anni: «Il bambino non sa cosa sia un biscotto, un albero o un uccello, nemmeno un giocattolo con cui giocare. Non sa leggere né scrivere. Ha visto sua madre subire abusi fisici e sessuali. È stato davvero difficile parlare con lui», raccontano i due sanitari.

Medici senza frontiere non ha avuto accesso alle prigioni di Damasco: questi pazienti sono stati indirizzati a Msf da un'altra organizzazione. Le équipe mediche stanno fornendo le cure necessarie per aiutarli a riprendersi. Molti ex detenuti, spiegano sempre i medici di Msf, sono terrorizzati, non riescono a parlare e perdono immediatamente la concentrazione. In molti, a cui venivano negati cibo e luce del sole, soffrono di grave claustrofobia; in alcuni casi hanno chiesto di venir visitati in spazi aperti. "Oggi abbiamo ricevuto un paziente - dice Omar - che è stato rilasciato dal carcere solo 70 ore fa. Piangeva e tremava, non riusciva a pronunciare bene le frasi, non riesce ancora a credere di essere uscito di prigione. È stato traumatizzato dal corpo del suo amico rimasto nella stessa cella per due giorni, dopo che un soldato lo aveva picchiato a morte". Sono tre in tutto i pazienti arrivati all'ospedale di Salqin di Msf, trattati con la massima riservatezza. Gli ex detenuti riferiscono di diversi tipi di torture: fisiche, psicologiche e sessuali. Anche se non paiono malnutriti, spesso veniva loro negato il cibo e la luce del giorno, piangevano molto e, per la paura e la frustrazione, dormivano pochissimo.

L'ospedale di Salqin di MsF ha subito organizzato un programma di assistenza mentale con visite settimanali per monitorare la situazio e un programma di educazione psicologica per il piccolo che, sinora, non ha mai conosciuto il padre.

La punta dell'iceberg di una emergenza sanitaria. Msf, come altre ong, sinora non aveva possibilità di operare alla parte di Siria controllata dal regime di Assad: "Sarebbe opportuno potere ora avere accesso in tutto il Paese per individuare i reali bisogni socio-sanitaria" afferma Maurizio Debanne, capo ufficio stampa di Msf.

Quasi 10 anni fa, ne 2016, un rapporto di Amnesty International “Ti spezza l’umanità. Tortura, malattie e morte nelle prigioni della Siria“, denunciava i crimini commessi dalle forze governative di Damasco. Il rapporto stimava in 17.723 il numero delle persone morte in carcere in Siria dal marzo 2011- inizio della guerra civile - con una media di oltre 300 morti al mese. Le torture, hanno raccontato dei sopravvissuti ad Amnesty, iniziavano al momento stesso dell’arresto e durante il trasferimento nei luoghi di detenzione con il cosiddetto "haflet al-istiqbal" (festa di benvenuto): pestaggi con spranghe di silicone o di metallo e cavi elettrici.

“Ci trattavano come bestie. Volevano raggiungere il massimo dell’inumanità. Ho visto sangue scorrere a fiumi. Non avrei mai immaginato che l’umanità potesse toccare livelli così bassi. Non si facevano alcun problema a uccidere persone a casaccio” è la testimonianza rilasciata ad Amnesty International di Samer, un avvocato arrestato nei pressi di Hama. All’interno dei centri di detenzione dei servizi di sicurezza, i detenuti subivano costanti torture, durante gli interrogatori per ottenere “confessioni” o altre informazioni, o come punizione: il dulab (“pneumatico”: il corpo della vittima viene contorto fino a farlo entrare in uno pneumatico) e la falaqa (“bastonatura”, pestaggi sulle piante dei piedi), ma anche le scariche elettriche, lo stupro, l’estirpazione delle unghie delle mani o dei piedi, le ustioni con acqua bollente e le bruciature con sigarette. Sovraffollamento, mancanza di cibo, assenza di strutture igienico-sanitari hanno determinato un trattamento inumano, in spregio al diritto internazionale, di cui il carcere di Sednaya era il culmine e il simbolo.

Crimini denunciati più volte dai dissidenti fuggiti all'estero con il supporto di numerose Ong. Il culmine il "caso Caesar", lo pseudonimo di un ex ufficiale della polizia militare siriana addetto alle foto d'archivio che, disertando nel gennaio 2014, portò all’estero quasi 55mila foto da lui scattate per documentare con raccapricciante precisione la morte e le torture subite dai detenuti nelle carceri di Bashar el-Assad tra il 2011 e il 2013. Una Commissione Internazionale certificò l’autenticità della documentazione dichiarando l’ammissibilità di un processo al regime siriano per crimini contro l’umanità. Le foto di Caesar sono state esposte al Palazzo di Vetro dell’ONU, alla Commissione Affari Esteri del Congresso degli Stati Uniti, al Museo dell’Olocausto di Washington, al Parlamento Europeo e la sede del Parlamento britannico oltre ad altre città europee senza portare a nessuna azione contro Bashar el-Assad. Crimini contro l'umanità che ora riemergono con brutalità e dimensioni ancora non verificabili. Il silenzio, oggi come dieci anni fa, una vile complicità.