Un gigante dai piedi d’argilla? Doveva essere, secondo analisti e politologi, il secolo asiatico, l’era nel quale Pechino avrebbe vampirizzato il mondo e recuperato il suo ruolo “imperiale”. Il Dragone sembra invece affacciarsi sul nuovo millennio vulnerato da una serie di squilibri – sociali, economici, ambientali – che rischiano di azzopparne l’ascesa. Diseguaglianze che minacciano di alterare il profilo e minarne la tenuta (e le ambizioni). A cominciare da quel vulnus che è la politica del figlio unico, il più ambizioso esperimento di ingegneria sociale mai messo in atto nella storia cinese e che, a partire dal 1979, ha “inchiodato” la crescita demografica del gigante asiatico. Gli effetti? Disastrosi. Se la misura ha contenuto l’esplosione della popolazione, ha al tempo stesso introdotto una serie di storture. Secondo i dati forniti dal
ChinaDaily, i cinesi over 60 hanno raggiunto quota 185 milioni alla fine del 2011, il 13,7% dell’intera popolazione. Nel 2010 erano 177,6 milioni. Di questi, secondo il
Beijing Review, 33 milioni sono, parzialmente o completamente, non autosufficienti. Entro la fine del 2015, l’esercito degli anziani crescerà di 43 milioni, raggiungendo quota 221 milioni. Gli over 80 saranno 24 milioni. Allo stesso tempo “spariscono” i giovani. E di conseguenza “langue” la forza lavoro, un buco che potrebbe azzoppare la crescita dell’economia. Secondo stime dell’Onu, il numero di giovani tra i 15 e i 24 anni diminuirà del 27% a 164 milioni entro il 2025. Nel 2010, per ogni cinque persone in età lavorativa, c’era una persona anziana. Al punto che le autorità hanno obbligato per legge i figli a visitare i genitori anziani. Secondo stime riportate dal
Time, il rapporto scenderà a tre persone in età lavorativa per ogni anziano entro il 2020. Non solo: secondo uno studio pubblicato dalla rivista
Scienze e intitolato significativamente «I piccoli imperatori», la generazione dei figli unici, quella che dovrà affrontare le sfide del secolo, è sempre più fragile: più pessimista, meno fiduciosa, meno portata appunto alle sfide. Quale sarà l’effetto sui conti del Dragone? I risultati del boom economico sono stati innegabili, travolgenti. Il Pil cinese è triplicato nel giro di soli 10 anni, viaggiando su una crescita media annua del 10%. Circa 500 milioni di persone sono uscite dal “pozzo” della povertà. Il Dragone oggi è la seconda economia al mondo, superata solo dagli Stai Uniti. I primati ci sono e sono tanti. Due delle prime dieci banche al mondo sono cinesi, Pechino vanta il secondo network di autostrade più esteso al mondo. Ma un rapporto della Banca mondiale – «China 2030» – mette il dito nella piaga: la crescita economica è ancora compatibile con l’erosione se non con la distruzione dell’ambiente (fisico, sociale e generazionale) cinese? Insomma i pilastri sui quali regge il miracolo potrebbero sfarinarsi. L’altra faccia dello sviluppo? Secondo i dati del Fondo monetario internazionale, 150 milioni di persone vivono al di sotto della soglia di povertà, la Cina occupa solo il centesimo posto al mondo in termini di Pil pro-capite. Un equilibrio che rischia di spezzarsi, come testimonia la conflittualità sociale sempre più diffusa. Secondo i dati riportati dal Chennai center gli incidenti di massa in Cina sono stati 180mila nel 2010. Nel 2008 erano stati 127mila, nel 2005 circa 87mila.La situazione preoccupa, e non poco, il partito. Che nel 2012 ha speso alla voce “sicurezza interna” oltre 700 miliardi di yuan (nel 2011 la cifra era apri a 629). La conflittualità poi sta diventando endemica anche nelle fabbriche, il luogo simbolo dell’ascesa cinese, grazie al quale si è costruito l’inarrestabile successo del «made in China». Il caso Foxconn, divenuta tristemente nota come la fabbrica dei suicidi, è solo la punta dell’iceberg. Come ricorda
AgiChina 24, scioperi e proteste si sono susseguiti senza tregua. Qualche esempio? A fine novembre nel sud della Cina oltre mille operai di un subappaltatore di Apple e Ibm hanno incrociato le braccia per protestare contro gli straordinari forzati, gli incidenti sul lavoro e i licenziamenti. Pochi giorni prima era stato il turno di un’enorme fabbrica di scarpe che rifornisce Adidas e Nike, dove a scioperare erano stati in 7mila. Nello stesso periodo, in tutto il Guangdong – la fucina manifatturiera nella Cina meridionale – si sono registrati numerose altre agitazioni negli stabilimenti di Shenzhen, Dongguan e Foshan. Secondo i dati forniti dal
China labour bullettin, in Cina si registrano almeno 30mila “agitazioni” all’anno. Infine il rovello che assilla la vita quotidiana dei cinesi: l’inquinamento. Pechino si ritrova “murata” in una coltre spessa di smog. Le autorità hanno dovuto ammesso che la presenza di polveri fini note come Pm 2,5 – le particelle inquinati sufficientemente piccole da penetrare nei polmoni – hanno raggiunto i 993 microgrammi per metrocubo, quasi 40 volte in più dei limiti di sicurezza stabiliti dall’Organizzazione mondiale della Sanità. Dal sette al 14 gennaio, 535 persone si sono presentate ai pronto soccorso della città denunciando problemi respiratori, il 54 per cento più dello stesso periodo dello scorso anno mentre il numero di casi di tumore ai polmoni è cresciuto del 56 per cento dal 2001.