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L'INTERVISTA. Zarmandili: «Siamo vicini al punto di rottura»

martedì 29 dicembre 2009
«S iamo dinanzi a u­na possibile rot­tura, la dialettica sulla quale per trent’anni si è svolto il confronto all’interno del regime è ormai degenera­ta ». Per Bijan Zarmandili, scrit­tore ed esperto di Iran, «a que­sto punto ogni cosa può suc­cedere ». Domina l’incertezza e la piega degli eventi, spiega l’analista, è impossibile da de­cifrare. Troppi fattori sono or­mai in campo. «Ma – prosegue – di sicuro stiamo assistendo a un cambio in atto della tattica dell’opposizione». Cosa è cambiato nella società iraniana e nelle motivazioni degli oppositori rispetto a giu­gno quando per la prima vol­ta il blocco riformista scese in piazza? Finora la resistenza è stata pas­siva. Ora invece è attiva. Prima bastava far vedere che l’oppo­sizione era viva e protestava. Oggi invece prende l’iniziati­va. Sappiamo che domenica interi quartieri di Teheran so­no sfuggiti al controllo del re­gime. Questo mostra un cam­biamento tattico. Ma c’è pure una svolta strategica. O alme­no si avvertono i sintomi di un mutamento più ampio. Quali ad esempio? In giugno e per tutta l’estate gli oppositori invocavano il ritor­no al voto e denunciavano i brogli in quelle elezioni truf­faldine. Domenica la folla can­tava slogan contro Ahmadi­nejad e contro la guida supre­ma ayatollah Khamenei. E questo è un bel salto di qua­lità. Che pone la sfida su un piano diverso. Cosa chiede oggi l’op­posizione? La domanda reale è: fino a quando il movimento resterà entro i limiti del sistema? Un conto è chiedere maggior giu­stizia sociale o democrazia, un altro invece invocare un cam­bio del sistema che regge la Re­pubblica islamica. L’opposizione ha anche di­verse anime e forse non tutte condividono lo stesso obietti­vo. Chi è più vicino allo spiri­to dei manifestanti? Difficile rispondere. Ma è evi­dente che la rivolta di piazza pone anche il quesito della lea­dership. Ci sono diversi perso­naggi, da Rafsanjani a Khata­mi a Mussavi che sono rap­presentati da decine di mi­gliaia di dimostranti. Bisogna vedere fino a quando la folla li seguirà. La protesta potrebbe anche prendere una deriva an­ti- sistema che i leader non vo­gliono. Ci sono segnali in tale dire­zione? Più che altro che sono segnali che il senso della protesta è mutato e le sue dimensioni so­no sempre più vaste. Scontri e raduni ci sono stati in tutte le città del Paese. E poi c’è un e­lemento singolare. A scendere in piazza a Teheran non sono stati gli abitanti dei quartieri settentrionali, quelli della buo­na borghesia. Anzi la protesta è nata domenica nel sud. È il popolo iraniano a protestare non le élite o gli studenti come in passato. Non significa però che il po­polo voglia abbandonare la Repubblica islamica e i suoi pilastri religiosi e ideologici... No. Trent’anni fa ci fu una Ri­voluzione non un colpo di sta­to. C’era consenso. E il regime iraniano ha bisogno di con­senso per sostenersi. In questi 30 anni questo schema si è e­roso. Oggi la debolezza del re­gime è manifestata non tanto dalla crisi politica quanto dal­la mancanza di autorevolezza e di fiducia che la gente ripo­ne nell’ayatollah. Ma questo indica che la gente si ribella a quello che il sistema è divenu­to, non al sistema in sè. Non dimentichiamo che «l’onda verde» rimanda pur sempre ai colori dell’islam. ( A.S.)