«L’abuso di stupefacenti è il nemico numero uno degli Stati Uniti». Con queste parole, il 17 giugno di 45 anni fa, il presidente Usa Richard Nixon lanciò la cosiddetta “guerra alla droga”, combattuta in gran parte nei Paesi produttori. Ovvero in America Latina dove, spesso, la lotta al narcotraffico ha giustificato interventi arbitrari. Proprio il Messico è stato il primo test – fallito – della politica di Nixon: l’“Operazione Condor”, nel Sinaloa, ha creato le condizioni per la nascita del potente gruppo criminale di Guadalajara, progenitore degli attuali “cartelli”. Sono questi ultimi – grazie alla corruzione dilagante all’interno delle istituzioni – i principali responsabili delle oltre 120mila vittime degli ultimi nove anni. Da quando, cioè, l’ex presidente Felipe Calderón ha lanciato l’offensiva militare contro la delinquenza che, lungi dallo sconfiggere quest’ultima, ha aumentato esponenzialmente la violenza. È un Messico “ferito e dolente” – come l’ha definito il poeta Javier Sicilia – il contesto in cui la Corte Suprema ha deciso, nella tarda serata di mercoledì, di dare il primo via libera alla “marijuana legale”.La sentenza – quattro voti a favore e uno contrario – autorizza il consumo, la coltivazione, il trasporto e il possesso di “erba” a fini cosiddetti ricreativi solo per i 4 autori del ricorso, esponenti della Società messicana per l’autoconsumo responsabile e tollerante (Smart). E anche se il governo del presidente Enrique Peña Nieto ha ribadito ieri che la cannabis resta vietata e che qualunque cambiamento nelle leggi implicherà un dibattito approfondito, la sentenza avrà un effetto a cascata. L’esecutivo messicano sa bene che è problematico confermare il bando quando il “potente vicino del Nord”, cioè Washington, sta progressivamente aprendo all’“erba legale”.
Già quattro Stati e il distretto di Columbia consentono la vendita libera di marijuana ricreativa, e altri 23 ne permettono l’impiego per fini medici. Il pretesto è quello di combattere il narcotraffico. Una propaganda a cui il Messico – dato l’altissimo tributo che paga nella guerra alla droga – è particolarmente sensibile. La campagna pro marijuana della Smart è stata incentrata proprio “sull’infliggere un duro colpo ai cartelli”. Peccato che – come numerosi esperti sostengono – non sia così. Negli Usa, dietro la “bugia della sicurezza” si nasconde un business – secondo le stessi lobby produttrici – di 1,5 miliardi di dollari, tra tasse e ricavi.«I narcos– ribadisce Edgardo Buscaglia, esperto di narcotraffico della Columbia University e presidente dell’Instituto de Acción Méxicana – sono multinazionali del crimine. E come tutte le grandi imprese diversificano il business. La droga è solo uno dei 22 tipi di attività illecite a cui si dedicano. E, all’interno di quest’ultimo comparto, gli introiti della marijuana sono minimi rispetto al totale». Proprio l’esperienza della liberalizzazione Usa ha dimostrato quanto i narcos siano bravi a “ristrutturarsi” in base alle esigenze del mercato. I cartelli hanno ridotto la produzione e conseguente esportazione di erba oltrefrontiera, per concentrarsi sulla coltivazione e il traffico di eroina, come dimostrano i dati dell’Agenzia antidroga Usa (Dea).Agli oppiacei, si aggiungono i grandi business di cocaina e pasticche, vendute nel mercato americano e in quello europeo. Il consumo di massa è là, non in patria. Basta ricordare che circa il 2% dei messicani ha utilizzato marijuana, contro il 7,5% degli statunitensi. L’eventuale “perdita” di una liberalizzazione nazionale sarebbe, dunque, irrisoria. L’erba illegale messicana, invece, fa concorrenza a quella legale made in Usa. Ancora una volta, sembrano questi ultimi a dettare la politica sulla droga al resto del Continente. Nel mentre, in Messico, nessuno tocca il nodo centrale della lotta alla corruzione, della riforma della giustizia e delle armi. Che, 9 su dieci, arrivano dal Texas.