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Kosovo. Kosovska Mitrovica, città di serbi e albanesi divisi dal fiume. Anche a Natale

Gianluca Carini lunedì 9 gennaio 2023

A Kosovska Mitrovica, 70mila abitanti nel Kosovo settentrionale, convivono più anime: a nord la minoranza serba (con una ancor più piccola parte bosniaca), a sud gli albanesi. In mezzo scorre il fiume Ibar, presidiato anche dai carabinieri italiani, tra i pochi a essere rispettati da entrambe le parti.

La famosa filastrocca che descriveva sinteticamente la Yugoslavia iniziava con “sei stati, cinque nazioni” e finiva con “un solo Tito”. Qualcosa (o meglio qualcuno) legava anche con la forza quel gigantesco crogiuolo di lingue, religioni, culture ed etnie che sono i Balcani. Oggi invece a Kosovska Mitrovica ci si dà le spalle: i serbi guardano verso Mosca, gli albanesi a Bruxelles.

Nella parte sud si sente fortemente la presenza dell’Unione Europea e della comunità internazionale: la via dello shopping pullula di negozi con marchi noti (con tanto di centro commerciale), si paga in euro, si costruiscono palazzi.

Superato il ponte, invece, lo scenario cambia: pochi i simboli occidentali, abbondano invece le bandiere serbe e, sui muri, le Zeta simbolo dell’invasione russa in Ucraina. L’Unione Europea ha un suo ufficio appena prima del ponte, chiamato Hello Europe, che però suona più come un arrivederci che come un benvenuto.

La minoranza serba accusa Belgrado di averla abbandonata ed è furiosa con il presidente Aleksandar Vučić. Ai minimi termini anche i rapporti con Pristina: negli scorsi mesi l’annuncio del presidente Albin Kurti di un’imminente stretta sulle targhe serbe in Kosovo (che qui circolano con la scritta Srb coperta da una fascetta adesiva bianca) ha scatenato le proteste della minoranza con un serio rischio di deflagrazione, poi rientrato a cavallo del nuovo anno. La situazione però è tutt’altro che risolta.

A separare questi due mondi c’è poi la religione: la parte albanese è a maggioranza islamica, quella serba è popolata da ortodossi. In questo clima, il 6 gennaio questi ultimi hanno celebrato il loro Natale.

Anche volendo, le due parti di Kosovska Mitrovica non possono però ignorarsi del tutto: gli albanesi custodiscono infatti un cimitero serbo, e viceversa. E poi a sud c’è una chiesa ortodossa, peraltro a una decina di minuti a piedi dalla maggiore moschea della città. La storia di questa chiesa racconta di una pace ancora lontana: diciannove anni fa è stata bruciata in un raid degli albanesi, spiega il prete dopo aver celebrato la Messa di Natale. Lui è qui dal 2016 e, caso più unico che raro, è un serbo che vive con la famiglia oltre il fiume. Tutte le foto della devastazione sono raccolte in un album, intitolato semplicemente “17 marzo 2004”: quel giorno vi furono in tutta l’area dei violentissimi scontri tra le due fazioni. Riferendosi a quell’episodio, i serbi non esitano a parlare di “pogrom” (i morti e feriti furono però da entrambe le parti) e il prete mostra le foto di alcuni soldati inermi davanti alla folla di albanesi intenta al saccheggio della chiesa. “Guarda cosa ci hanno lasciato quando sono andati via”, mi dice mostrando foto di pannolini e spazzatura. Ancora adesso i lavori di recupero sono molto lontani dall’essere finiti.

Dopo la celebrazione, la comunità serba si riunisce per un pranzo: sono appena le 10 del mattino quando una ventina di persone si accomoda davanti a una tavola imbandita di formaggi, maiale affumicato, torte salate. E soprattutto tanta rakija, la fortissima bevanda alcolica a base di mele o prugne che accompagna i pasti. Uno dei presenti ha un passato nella legione straniera e parla bene francese: ci racconta del suo addestramento e mostra le foto sul cellulare. “È stato duro, ma non ho rimpianti”, continua a ripetere sorridendo. Ora lavora a Belgrado nel settore dell’edilizia. Dopo l’invasione di Mosca ai danni dell’Ucraina e le sanzioni che ne sono seguite, la capitale serba si è riempita di russi che hanno fatto schizzare il costo della vita. “Il prezzo al metro quadro in certe zone è più che raddoppiato”, spiega.

Un altro dei commensali parla inglese: tra vari brindisi di “Hristos se rodi!” (buon Natale in serbo), la confidenza cresce e al termine del pranzo ci invita a casa sua, nella metà serba della città. In casa ci accoglie con la fidanzata e un amico fraterno. “Non parliamo di politica il giorno di Natale”, implora il padrone di casa quando le domande prendono una certa piega. Vietatissimo anche solo il nome di Vučić: il presidente serbo qui è visto con il fumo negli occhi, tanto che il giorno dopo, superata la tregua natalizia, ci sarà una manifestazione anche contro di lui nella parte nord. Tra un ricordo di Gianluca Vialli, scomparso il giorno prima, e l’ennesimo brindisi di “Hristos se rodi!” di politica si finisce però per parlare eccome: “Il 90 per cento dei serbi è a favore di Putin. Abbiamo rispetto degli ucraini, ma non del loro presidente Zelensky”. Nel mirino ci sono però soprattutto gli americani e il ricordo del bombardamento Nato su Belgrado del 1999.

Per chi vive nel conflitto, la storia non è solo materia scolastica ma dà forma al quotidiano. Anche fatti lontanissimi nel tempo sono raccontati come fossero accaduti l'altro ieri. Non esiste un serbo che non conosca la battaglia di Kosovo Polje che si svolse non molto più a sud: nel 1389, sulla Piana dei Merli, i cristiani guidati dal serbo Lazar Hrebeljanović si scontrarono con gli ottomani del sultano Murād I. Morirono entrambi i condottieri: Lazar Hrebeljanović è stato proclamato santo dalla Chiesa ortodossa, la sua tomba posta nella chiesa di San Sava (la più grande chiesa ortodossa nei Balcani) e nelle bancarelle di Belgrado si trovano ancor oggi le magliette con la sua effige. La stessa chiesa di San Sava, peraltro, è un piccolo trattato politico sulla Serbia odierna: la sua costruzione è terminata solo di recente (grazie al contributo economico della Russia) e molti mosaici raffigurano monasteri ortodossi in territorio kosovaro. Una enorme statua di Knez (principe) Lazar è stata costruita anche nella metà serba di Kosovska Mitrovica, rivolta in direzione della parte albanese.

Nel giorno di Natale, però, in mezzo a tutti questi conflitti mai sopiti c’è spazio anche per una luce di speranza: “Ci sono albanesi con cui sono cresciuto e di cui sono rimasto amico. So che entrambi i popoli vogliono la pace, sono i politici che invece soffiano sul conflitto per dividerci”, confida il nostro interlocutore. Presto però la realtà riprende il sopravvento: finita la cena, bisogna tornare a casa, oltre il fiume. Veniamo scortati fino al ponte, dove ci fermiamo a chiacchierare con i carabinieri italiani, che qui si alternano giorno e notte. Poi l'incontro finisce. Il nostro accompagnatore non può proseguire oltre il ponte.