Lungo quello che chiamano il "muro della vergogna" c’è apparentemente solo il nulla di un deserto che si perde a vista d’occhio. Sabbia e sassi. E poi quella ferita, incisa quattro, cinque, sei volte nella piana che sfuma all’orizzonte o sul crinale di rilievi levigati dal vento. Ma il nulla del deserto è sempre ingannevole. Così come questi muri, che corrono paralleli per circa 2.700 chilometri, l’uno accanto all’altro, alti poche spanne, eppure invalicabili.Li hanno "rafforzati" con cinque milioni di mine e sono sorvegliati da oltre 160mila militari. Marocchini da una parte, saharawi dall’altra. I primi sono quelli che l’hanno costruito e vi hanno schierato gran parte del proprio esercito. I secondi sono coloro che hanno dovuto fuggire dalla loro terra, il Sahara Occidentale, e che ora vivono in gran parte ammassati nei campi profughi del sud dell’Algeria. Anche qui il nulla: mancanza d’acqua, cibo, strutture sanitarie. Dipendenza totale dagli aiuti umanitari, da oltre 34 anni. Per una popolazione di circa 200mila persone. Lo scorso 27 febbraio i saharawi hanno celebrato l’anniversario della fondazione della Repubblica araba saharawi democratica. A modo loro. Ovvero da Stato in esilio e da popolo senza terra. A di là della retorica, che nasconde solo in parte la fierezza di un popolo che crede davvero in una causa di giustizia e libertà, ci sono i drammi della persone. Del passato e del presente. Come Nuena, donna forte e coraggiosa, militante sin dalla prima ora e, come molte donne, impegnata in ruoli di primo piano nelle istituzioni saharawi. Ha perso due mariti in guerra; il terzo è stato ferito. Ricorda la fuga, nel 1976, sotto le bombe marocchine: «Siamo arrivati qui senza niente. Abbiamo strappato i veli per coprire i nostri figli. Poi abbiamo accettato la sfida, specialmente noi donne, in tutte le strutture della nuova Repubblica, per dare un futuro ai nostri ragazzi e trasmettere loro l’orgoglio di appartenere a questo popolo». Un’altra donna, mutilata da una mina, racconta la sua fuga nella cosiddetta zona "liberata", una striscia di deserto tra Marocco e Mauritania. Vive da molti anni nella Scuola per vittime di guerra, insieme ad altre 152 persone, tutte con i segni indelebili di quel conflitto che dal 1976 al 1991 ha segnato per sempre un intero popolo. Ahmed Makathari, nella stanza accanto, è paralizzato dal 1980. Una scheggia si è conficcata nella sua colonna vertebrale. Lo spirito, però, resta battagliero: «Non chiediamo cose impossibili, ma normali e giuste. Stiamo aspettando da quasi 35 anni una soluzione trasparente ed equa. Ma c’è un limite anche alla pazienza. Ormai siamo esasperati. Ma speriamo che la comunità internazionale faccia tutte le pressioni necessarie per arrivare a una soluzione. Il silenzio di molti ci fa male. Assomiglia molto a una complicità».Bouamoud è un ragazzo magro ed emaciato. È ospite dell’associazione delle famiglie dei presunti spariti saharawi, che si occupa ancora oggi di almeno 500 casi di persone di cui non si hanno più notizie. Bouamoud ha rischiato di fare la stessa fine. Viene dai territori occupati e racconta una storia agghiacciante. Quella di una retata della polizia marocchina, dello stupro, davanti ai suoi occhi, della madre della sorella, delle torture e – lo dice con gli occhi bassi che si riempiono di lacrime – della violenza sessuale che lui stesso ha subito con un bastone. È riuscito a venire in Algeria per farsi curare. Aspetta di stare un po’ meglio per tornare nel Sahara Occidentale, anche se rischia di finire ancora in prigione. «Devo tornare – dice –, sono il figlio maggiore e ho responsabilità nei confronti della mia famiglia, ma temo per quello che potrebbe capitarmi di nuovo».Bouamoud è giovane e si sente che ha un fuoco dentro. Bachari Saleh, invece, è anziano e zoppicante, ma anche lui parla con spirito indomito: «Non amiamo la guerra – dice –, non siamo terroristi, ma siamo stanchi e stiamo perdendo la fiducia nella comunità internazionale». Bachari Saleh si dedica da diversi anni all’attività diplomatica, come "ambasciatore" in Messico, Siria e ora in Guinea Bissau. Prima, però, e per ben sedici anni, è stato un combattente. Oggi non partecipa più ad azioni di guerriglia, come negli anni Settanta, ma prova a convincere il mondo che una soluzione pacifica è possibile e che i saharawi sono pronti a fare tutti i passi necessari. Sempre che qualcuno li stia ad ascoltare.Ma in fondo a questo deserto aspro e ostile l’impressione è che la loro voce si perda nel grande vuoto sahariano e faccia fatica ad arrivare ai centri di potere di un mondo concentrato su altre crisi. Eppure, anche nella vicenda dei saharawi l’economia c’entra, eccome. Così come le alleanze e gli interessi regionali e internazionali.Omar Mih, rappresentante della Rasd in Italia, tornato nei campi in occasione della Sahara Marathon, dello scorso 22 febbraio, prova a spiegare: «Fosfati e pesce: queste, in sintesi, le principali ragioni economiche dell’occupazione marocchina. Il Sahara Occidentale è una delle regioni più ricche di fosfati al mondo. E il nostro mare è tra i più pescosi. Ma l’Europa non si è fatta scrupoli a sottoscrivere accordi di pesca con il Marocco. Solo la Svezia ha tentato di opporsi».Grazie alle miniere di Bu Craa, il Marocco è il terzo produttore mondiale di fosfati. Quanto alla pesca, lo scorso 14 febbraio, 26 organizzazioni non governative saharawi hanno chiesto al commissario Ue Joe Borg, incaricato degli Affari marittimi, di porre fine alle attività di pesca illegale di imbarcazioni europee nelle acque antistanti il Sahara Occidentale e di escludere ogni accordo con il Marocco, al fine di evitare «uno sfruttamento delle risorse in violazione del diritto internazionale».«Anche da un punto di vista geopolitico – continua Omar Mih – dovrebbe essere nell’interesse di tutto il mondo il sostegno a un esperimento democratico come quello della Repubblica saharawi in una zona a rischio terrorismo come quella sahariana. In tutti questi anni abbiamo dimostrato non solo di essere un popolo che ama la pace, ma anche di essere un movimento fatto di attivisti "laici" e di moltissime donne. Un’eccezione positiva in un’area dove si sta imponendo il fondamentalismo islamico».Il ragionamento, di per sé, non fa una grinza, anche alla luce dei recenti e ripetuti rapimenti di occidentali da parte di gruppi affiliati ad al-Qaeda, avvenuti nella vicina Mauritania, in Mali o in Niger. Sta di fatto, però, che le ragioni saharawi fanno fatica a superare non solo il muro della vergogna, ma ancor più quello dell’indifferenza del resto del mondo.