Casca o non casca? Con questo dubbio amletico sulle sorti del faraone Hosni Mubarak, inconcepibile anche solo qualche giorno fa, è trascorsa la giornata di venerdì, iniziata con l’oscuramento totale delle comunicazioni (telefoni fissi e mobili, internet, radio) eppure rivelatasi la più esplosiva dall’inizio delle agitazioni sociali in Egitto, martedì scorso.Sotto gli occhi sgranati di analisti, diplomatici, politici di tutto il mondo, che hanno potuto seguire su al-Jazeera e altre tv satellitari gli scontri al Cairo, la tradizionale rassegnazione egiziana è andata in frantumi come mai prima. Si è detto: Mubarak non è il tunisino Zine El Abidine Ben Ali, impossibile scalzarlo. Eppure la rabbia popolare sta facendo scricchiolare anche il suo trono trentennale.Ma l’Egitto non è la Tunisia, il Cairo ha un ruolo strategico nel Mediterraneo, a maggior ra- gione in questo primo scorcio di 2011. Ora che il Libano oscilla pericolosamente, in bilico sull’orlo di una nuova guerra civile, sotto gli occhi compiaciuti degli sciiti di Hezbollah; ora che i “palestinian papers” (le carte diffuse da Wikileaks) hanno assestato un nuovo duro colpo all’autorevolezza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) nel processo di pace con Israele, dando nuovo fiato alle trombe di Hamas; ora che l’intero Nord Africa sembra aver raggiunto la saturazione dopo decenni di spietate oligarchie. L’Egitto è lì, chiave di volta di un complesso architrave.Un tassello di 80 milioni di cittadini compresso su tutti i fronti: a Est, dal dramma di un milione e 700 mila palestinesi di Gaza chiusi in gabbia e infiltrati da uomini di al-Qaeda; a Ovest, dall’imprevedibile Libia del colonnello Muammar Gheddafi; a Sud, dal colosso sudanese scosso da divisioni di ogni genere. Per tutto questo e altro ancora (investimenti stranieri che ammontano a parecchie centinaia di miliardi di dollari), lo stesso Mubarak o il blocco di interessi da lui rappresentato potrebbe essere “obbligato” a succedere a sé stesso, tirando fuori dal cilindro prima del tempo un successore.Con o senza la Rivoluzione dei gelsomini in Tunisia, il 2011 sarebbe stato un anno cruciale, con le elezioni presidenziali in agenda a settembre. Mubarak, in sella da cinque mandati consecutivi, è spesso costretto a soggiorni all’estero per cure mediche: secondo fonti di intelligence sarebbe già stato rimpiazzato da un direttorio di ministri fidati sostenuto dall’esercito. Fra di loro Omar Suleiman, numero uno dei servizi segreti, intermediario fra fazioni palestinesi, e fra Israele e Anp; Mohammed Sayyed Tantawi, ministro della Difesa, generale; Habib El Adly, ministro degli Interni, e altri fedeli. Fra di loro il probabile successore.La stella di Gamal, figlio 47enne del raìs, sembra ormai tramontata: inviso alla vecchia guardia del Partito nazionale democratico e all’esercito, Gamal si vede sempre di meno nelle occasioni ufficiali. Con apprensione la stampa israeliana segue gli sviluppi nel Paese confinante, l’unico fra gli Stati della Lega araba, insieme alla Giordania, ad aver firmato un trattato di pace (1979). Scrive il quotidiano Haaretz: «Gli analisti ritengono che probabilmente gli Stati Uniti vogliono evitare di accrescere l’incertezza politica (in Egitto) abbandonando Mubarak». Un auspicio, più che una affermazione.Perché nessuno può sapere chi sceglierebbero gli egiziani: Mohammed El Baradei? Oppure un esponente della Fratellanza musulmana? Il primo è sceso nell’agone politico da appena un anno dando vita all’Assemblea per il cambiamento, ma non ha saputo elaborare un programma convincente. La partecipazione alle manifestazioni di ieri e il suo arresto domiciliare potrebbero averne rilanciato le aspirazioni. La confraternita, invece, benché bandita dalla vita politica e costretta alla clandestinità, è ormai uno Stato nello Stato. Là dove le istituzioni sono assenti, i Fratelli vantano una rete capillare di ambulatori, studi legali, uffici di collocamento, negozi e supermercati, scuole. La Fratellanza, nelle sue correnti moderata o più radicale, non è una realtà estranea alla società. Con messaggi contraddittori: talvolta antiisraeliani e anti-occidentali, talvolta moderati. Come contraddittorio è l’atteggiamento Usa: ufficialmente solidale con il presidente, ma, secondo i cablogrammi di Wikileaks, pronto a finanziare le opposizioni tutte con almeno 150 milioni di dollari nel biennio 2008-2009.