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Le elezioni in Iran. Sarà solo un altro giro di giostra?

Giorgio Ferrari giovedì 29 febbraio 2024

«Non sono affatto messi bene, non siamo più ai tempi della rivoluzione», commenta da fuori campo Nader, membro libanese del “Politburo “sciita che risponde direttamente a Teheran. E ha ragione. Perché alla vigilia delle elezioni che designeranno il nuovo leader iraniano e il gruppo degli Esperti che incoroneranno il rahbar, la nuova Guida suprema che prenderà a suo tempo il posto di Ali Khamenei l’Iran è un Paese turbolento, in bilico fra modernità e reazione, fra la rivolta duramente repressa delle donne e la rigidità del clero post-khomeinista. Risultato probabile, un’ulteriore giro di vite della stanca teocrazia all’interno della quale gli unici contendenti sono da una parte i Guardiani della Rivoluzione, dall’altra un clero conservatore che da sempre accusa Khamenei di essere stato troppo conciliante con i traditori del credo khomeinista. Qualcuno rimpiange Mahmud Ahmadinejad, “the beast” (la bestia) come lo chiamavano gli americani ogni volta che metteva piede a New York per l’Assemblea generale dell’Onu, qualcun altro profetizza che il ruolo dei Guardiani sarà determinante, quale che sia la nuova guida suprema. Un sondaggio della vigilia rivela che il 40% della popolazione vedrebbe con favore la caduta della repubblica islamica.

Ma dietro un’elezione che interessa una parte modesta della società iraniana, dominata prevalentemente da paura (cinquecento morti e almeno 20 mila cittadini incarcerati in seguito alle proteste di piazza) e dalla sfiducia («sempre una teocrazia resterà», si sente dire nelle strade, negli affollati mercati, negli uffici governativi) un quesito resta per ora inevaso: dove andrà l’Iran? I suoi capisaldi – eliminazione di Israele, l’odiata “entità sionista”, attenuazione e/o l’eliminazione delle sanzioni rinegoziando a proprio vantaggio l’accordo sul nucleare, il sabotaggio degli Accordi di Abramo fra Israele, l’Arabia Saudita e le petromonarchie del Golfo - sono noti. Meno chiaro è il ruolo che Teheran potrà assumere nel ridisegno dello scacchiere mediorientale. Perché dietro alla cortina di nichilismo panislamico dietro alla quale si trincerano gli ayatollah resta un vuoto. Grande fornitore di droni Shahed alla Russia, silenzioso burattinaio delle proxy war innescate attorno alla penisola arabica, dal primo gennaio nuovo membro dei Brics allargati (accanto a Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica insieme all’Iran entrano anche Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Etiopia ed Egitto, come dire metà della popolazione mondiale), la Repubblica islamica cerca un’identità strategica, commerciale e internazionale che al momento fatica ad avere.

Nonostante i buoni uffici della Cina che ha avvicinato il clero sciita all’ortodossia wahabita di Riad, Teheran ha un’aura ambigua che lascia dietro di sé una scia di diffidenza. Cosa farà il successore di Khamenei quando prima o poi si discuterà del riassetto di Gaza e dei nuovi equilibri della regione? E se la posta in gioco, di tutti i giochi di pace fosse il riconoscimento di Israele, come già hanno predisposto i firmatari degli Accordi di Abramo? Sarebbero disposti i nuovi ayatollah a tradire la propria ragione sociale? Ad accordarsi con il Grande Satana americano, con i killer di Qassem Soleimani, il comandante della Forza Quds, figura leggendaria e amatissima nel Paese? Difficile pensarlo. Come è difficile immaginare un regime change che prenda le mosse dall’interno della teocrazia iraniana. Prigionieri di se stessi, i chierici di Teheran si apprestano a un passaggio di poteri che appare come la replica di un canovaccio che conosciamo da sempre.