Intervista. Il console nell'inferno ruandese
Anticipiamo alcuni brani dell'intervista del nostro inviato a Kigali all'ex console italiano in Ruanda Pierantonio Costa. Il testo integrale su Avvenire di venerdì 4 aprile in edicola.
Dal nostro inviato a Kigali - Pierantonio Costa era il console italiano in Ruanda, nel 1994. Durante il genocidio, dopo quel fatale 6 aprile, per due mesi organizza, e personalmente conduce, il salvataggio di circa 2.000 persone, tra cui 375 bambini di un orfanotrofio, portandoli fuori da un Paese caduto in un inferno di inaudita barbara violenza. Lo fa dilapidando le sue risorse di imprenditore. Console Costa, cosa ricorda di quel primo giorno di venti anni fa? Immagini precise. L’inizio di una battaglia non si dimentica. Vedo mia moglie con i bambini che si organizza in casa, mentre fuori le sparatorie aumentavano. Con la radio portatile si scambiavano le informazioni e raccoglievo le richieste d’aiuto. Ma nessuno si poteva muovere da casa. Come è potuta accadere questa apocalisse? Era stata programmata. Occorreva solo l’occasione per scatenarla. L’ora zero è scattata con la morte del presidente Habyarimana. Tutte le parti in conflitto avevano interesse a fare quel colpo. Anche se dalla parte del presidente c’era una classe dirigente che con la firma degli accordi di pace, in discussione ad Arusha, Tanzania, perdeva ogni garanzia di amnistia. Dovendo rispondere dei massacri di tutsi avvenuti tra il 1992 e 1993. La comunità internazionale dove ha sbagliato? A Kigali c’era una missione Onu, la Minuar. Milleottocento soldati, di cui 400 belgi, armatissimi e capaci di combattere. Se avessero fatto capire che sarebbero intervenuti in forze, sì, ci sarebbero stati dei morti, forse decine di migliaia, ma la tragedia non avrebbe assunto le dimensioni che conosciamo. Però ci sarebbero stati anche dei bianchi morti.