Cina. Rivolta a Hong Kong, sospeso l'esame della legge sulle estradizioni
La popolazione di Hong Kong protesta per le strade della metropoli (Ansa)
L'assemblea legislativa di Hong Kong ha deciso di sospendere i lavori dopo le violente proteste di ieri. La contestata legge sulle estradizioni in Cina, accusata di rafforzare il controllo di Pechino su Hong Kong, resta in fase di stallo e il suo esame, nella seconda lettura, è ancora da definire. Per gli scontri, 11 manifestanti sono stati arrestati e 22 agenti rimasti feriti.
Cresce di intensità la protesta nel centro nevralgico di Hong Kong. Non sono bastati appelli e pressioni per disperdere decine di migliaia di manifestanti che anche ieri hanno bloccato le aree attorno alla sede del governo e interrotto buona parte delle attività finanziarie e commerciali. A queste si sono aggiunte le iniziative di serrata annunciate da diverse organizzazioni di categoria per sostenere le iniziative di boicottaggio.
Le azioni della polizia antisommossa che ha fatto un uso intenso di cariche con i manganelli, lacrimogeni e – secondo diverse testimonianze – di proiettili di gomma, hanno solo alleggerito la pressione ma non disperso la protesta, diventata violenta in più riprese, con un pesante bilancio di feriti: 72, di cui 21 tra i poliziotti. Decine quelli ancora ricoverati in serata, di cui almeno due in gravi condizioni, conseguenza perlopiù della battaglia dentro il perimetro del Parlamento, in parte occupato dai dimostranti e liberato dalle forze di sicurezza dopo duri scontri.
Nonostante la volontà dei manifestanti di non consentire il passaggio della nuova legge sulle estradizioni verso la Cina continentale, il capo dell’esecutivo locale, Carrie Lam, ha mantenuto la sua posizione, definendo le proteste «azioni di rivolta che danneggiano una società pacifica, ignorando la legge e la disciplina, sono inaccettabili per qualsiasi società civilizzata». Lam, che con le sue affermazioni apre le porte ad arresti secondo la legge d’emergenza, ha ancora una volta ha segnalato «ingerenze straniere» dietro le azioni di movimenti studenteschi e gruppi per i diritti umani a cui si sono unite organizzazioni professionali e religiose che, dopo avere ricordato il trentennale della repressione di Piazza Tienanmen il 3-4 giugno, domenica scorsa hanno coordinato la “marcia di un milione”, la manifestazione di dissenso più partecipata dal 2003 verso un’iniziativa dell’amministrazione locale incentivata da Pechino. Un primo risultato c’è stato: la sessione di discussione del testo legislativo che avrebbe dovuto cominciare ieri è stata rinviata a data da destinarsi.
Irremovibile per ora il Fronte per i diritti umani e civili, coordinatore delle iniziative in corso, a cui sarebbe stato negato il permesso di manifestare legalmente oggi perché la polizia non potrebbe garantire la sicurezza dei partecipanti. «L’ultima speranza per Hong Kong si trova ora completamente nelle mani dei suoi residenti», ha comunicato il suo giovane portavoce Jimmy Sham Tsz-kit, che ha chiesto ai concittadini di scioperare e boicottare le lezioni scolastiche.
A loro volta, davanti all’attenzione delle diplomazie – ieri il presidente Usa Donald Trump ha auspicato che i manifestanti trovino «una soluzione» con Pechino, mentre l’Ue ha chiesto che siano rispettato «il diritto fondamentale di riunione e di esprimersi liberamente e pacificamente» – le autorità cinesi hanno segnalato l’appoggio al governo locale parlando di «un problema di sovranità». Nella conferenza stampa quotidiana, il portavoce del ministero degli Esteri, Geng Shuang, ha affermato che qualsiasi azione che danneggi Hong Kong è «osteggiata dall’opinione pubblica locale» e ha sollecitato gli Usa a utilizzare cautela verso Hong Kong, bollando come «disinformazione e fake news» le voci di un possibile utilizzo delle forze di sicurezza cinesi per riportare la calma nella Regione autonoma speciale dove si rischia un forte impatto economico.
Ieri la Borsa di Hong Kong, terza piazza finanziaria dell’Asia e la quinta al mondo, ha visto una caduta dell’1,73 per cento. Colpiti pesantemente i titoli tecnologici cinesi e quelli bancari. Questi ultimi in particolare di istituti di credito che hanno annunciato la chiusura di filiali nelle zone interessate dalla protesta.
Dietro alle proteste, ancora una volta si evidenziano i limiti della teoria di “un Paese due sistemi” che la Cina vorrebbe estendere anche a Taiwan dopo Hong Kong e Macau ma che si scontra con il tentativo di Pechino di erodere la speciale autonomia concessa a Hong Kong fino al 2045. Un problema evidenziato nei giorni scorsi anche da Chris Patten, ultimo governatore britannico, che ha parlato della nuova legge sull’estradizione come di «una proposta o una serie di proposte che danno un colpo terribile… allo stato di diritto, alla stabilità e sicurezza di Hong Kong, al ruolo di Hong Kong come grande centro commerciale internazionale».