Israele. Il ritorno a Be'eri: «La nostra sfida è ripartire dopo quel 7 ottobre»
Le macerie del kibbutz Be'eri dopo l'attacco
Dalla terra ocra, sottile come polvere, nasce una selva di paletti di ferro. Una per ciascuna delle 364 vittime del concerto di musica elettronica Nova. I loro volti giovani o giovanissimi sbocciano sulla sommità delle aste. Alla base, un’aiuola di sassolini bianchi e papaveri rossi. La copia in ceramica dei fiori che spuntano ovunque nel Sud. “Kalanit”, li chiamano in Israele e sono considerati simbolo di vita nuova. Specie nel Neghev che, in questa stagione, diventa una distesa scarlatta di papaveri. Le decine e decine di persone che si aggirano per la foresta di Be’eri non sono, però, qui per il tradizionale Festival di primavera “Darom Adon”. L’enorme spianata adiacente al kibbutz Reim è il memoriale a cielo aperto del 7 ottobre. All’alba di sei mesi fa, alcune centinaia di miliziani di Hamas hanno fatto irruzione durante l’evento per massacrare, stuprare, rapire le migliaia di ragazzi presenti. Una carneficina, una delle tante perpetrate dai terroristi nel giro di 24 ore nelle comunità meridionali dello Stato ebraico, per un totale di 1.200 vittime e 257 donne, uomini, bambini presi in ostaggio. L’attacco al Nova – mirato contro dei ventenni in festa – è la sintesi e l’emblema di quel giorno d’orrore. Per questo è la tappa clou del “tour del dolore”. Da dicembre, quando la strada 232 è stata riaperta alla circolazione dopo oltre due mesi di blocco, vi arrivano quotidianamente tra le 500 e le mille persone. Da soli o in gruppi organizzati, dal Paese o dall’estero, camminano lente, osservando i ritratti dei morti e dei rapiti. In sottofondo, risuona il tonfo sinistro delle bombe che cadono su Gaza, distante appena 18 chilometri.
Al momento, nel parcheggio si contano una decina di pullman più numerosi taxi e auto private. Stephen è venuto dalla Florida con una comitiva di venti connazionali. «Siamo tutti ebrei. E come tali abbiamo il dovere di vedere quanto è accaduto. Voglio essere testimone – dice, mentre la voce si spezza per la commozione –. Anche se è molto doloroso. Provo la stessa cosa di quando sono stato ad Auschwitz».
Neira e Yoknam, giovanissime soldatesse in divisa, raccontano di avere «la pelle d’oca»: sono tanti i militari in licenza in visita, l’esercito – spiegano - li incoraggia ad andare per comprendere la minaccia contro cui devono combattere.
Nathalie, di Kfar Saba, è venuta sei volte da quando sono cominciati i pellegrinaggi. In modo spontaneo all’inizio. Familiari e superstiti, accompagnati da gruppi di solidarietà nati all’indomani della maggior catastrofe nazionale, hanno cominciato a recarsi a Reim per ricordare i caduti con un segno. Poi la cosa è cresciuta. Ora la Jewish agency for Israel, organizzazione storica della galassia sionista, si occupa della gestione, in modo non ufficiale, nell’attesa della costruzione di un vero parco della memoria.
«Dovevo esserci anche quella notte – afferma Yael, 24 anni –. Ma non ho potuto. Non riesco a pensarci». Ilai, 23 anni, invece, c’era. È sfuggito ai miliziani nascondendosi fra gli alberi di avocado. «Per questo sono vivo, a differenza di altri nove amici che sono stati assassinati. Sono rimasto nella boscaglia per oltre 9 ore. Sentivo gli spari, le grida, i pianti», racconta a una quarantina di inglesi di fronte a un cartello che ricostruisce le tappe dell’assalto. Una volta alla settimana fa da guida ai visitatori, narrando la strage fin nei minimi dettagli. «Lo devo a chi non c’è più», aggiunge. Con lui c’è Rami Davidian, un agricoltore della comunità di Patish, che ha salvato 750 ragazzi: un amico, l’aveva chiamato dal Nova chiedendogli aiuto. Rami si era precipitato a soccorrerlo, a rischio di essere egli stesso colpito. Poi era tornato, in camion, più e più volte, per portare via quante più persone possibile.
«Sentire i racconti dei testimoni non è come leggere la notizia», sottolinea Linda, di Londra, che era già stata a Reim a gennaio.
«Sono tornata con mio marito. Volevo che facesse l’esperienza. È il nostro omaggio alle vittime». Non tutti la pensano così. Anzi, nel Paese c’è un forte dibattito sul cosiddetto “turismo del 7 ottobre”. I critici parlano di «propaganda» e «trasformazione della tragedia in business».
Il rischio, in effetti, c’è. Qualcuno degli accompagnatori mette molta enfasi nel sostenere la necessità dello scontro nella Striscia, dove i morti – secondo i dati del ministero della Sanità locale, controllato da Hamas – hanno oltrepassato l’assurda quota di 33mila. Facendo una ricerca su internet, inoltre, ci si imbatte in una serie di offerte di tour alla «scoperta dei luoghi del massacro». A pagamento, ovviamente. C’è, infine, l’impatto che il flusso continuo di visitatori ha sui kibbutz colpiti, dove lentamente la vita prova a ricominciare.
Di fronte al cancello giallo di Be’eri, i vigilanti hanno ormai ripreso il posto dei militari. La recinzione è stata riparata e la strada principale è in ordine. Eppure, è sufficiente girare nei quartieri di Kerem o Zeitun per imbattersi nelle file di macerie annerite di villette e giardini – 124 in totale -, sulle quali una foto ricorda i proprietari uccisi. Novantasette persone, il 15 per cento della popolazione del kibbutz. «Sono stata fortunata ad abitare 40 metri più in là. Non hanno attaccato questo quartiere, Oranim, ma ho potuto sentire tutto. Così la mia casa c’è ancora. E, soprattutto, la mia famiglia», racconta Natasha Cohen, nata in Sudafrica e venuta a 19 anni in Israele con un’organizzazione di volontariato cristiana.
«No, non sono ebrea. Ma ne ho sposato uno e sono rimasta. Vivo qui da 15 anni. Il kibbutz è ormai il mondo, per questo sono tornata», dice mentre cammina scortata dalla sua cagna Cuda. Lo ha deciso all’inizio di dicembre dopo aver trascorso i mesi precedenti in un hotel sul Mar Rosso dove è stata alloggiata provvisoriamente la comunità. «All’inizio è stato fondamentale stare uniti per consolarci a vicenda ed elaborare insieme il lutto. Era impossibile spiegare a chi aveva vissuto il nostro dramma quanto stavamo provando. Poi ci sono stati i riconoscimenti, i funerali ogni settimana. Ancora un mese dopo non sapevamo quanti fossero morti e quanti sequestrati. Man mano che il tempo passava, però, mi sentivo una profuga nel mio stesso Paese».
Alla fine di ottobre, Natasha è tornata al kibbutz per la prima volta per accompagnare una vicina a prendere alcuni documenti. «Dovevo vedere con i miei occhi e rendermi conto. È stato terribile, fino ad allora mi era sembrato un incubo, mi muovevo come un robot. Invece era tutto vero, inclusa la morte di cinque care amiche. Per accettare la realtà ho dovuto fare i conti con il senso di colpa per essere sopravvissuta. A un certo punto, rivolevo il controllo della mia vita. Così ho trovato la forza di tornare». Natasha ora lavora nella tipografia di Be’eri e si occupa di mandare avanti i campi «per quando rientreremo tutti, perché rientreremo». Finora, un centinaio di residenti ha fatto ritorno e ha iniziato a rimettere in funzione le attività con l’aiuto di volontari dalle comunità vicine.
Nel frattempo, le comitive di visitatori si aggirano per i vialetti, le case vuote e quelle distrutte. C’è anche Stephen, appena arrivato da Reim con gli altri statunitensi. «Vengono a centinaia, certe volte è duro dover ripetere sempre la stessa storia dolorosa. Quando vedo, però, il loro sguardo di fronte alle mie parole, capisco l’importanza di farlo», afferma Rami Gold, tornato a Be’eri part time da due mesi. «Sto qui durante la settimana e il weekend vado nel Mar Rosso da mia moglie. Dà una mano a nostra figlia con i nipotini: la loro scuola qui riaprirà solo a settembre».
A differenza della casa, intatta, il giardino di Rami è stato colpito da una granata. «Lo sto rimettendo a posto, un pezzetto alla volta. E mi occupo dei lavori comuni, tanto non riesco a dormire.... Se rimanessi fermo crollerei. E poi c’è tantissimo da fare. Dobbiamo ricostruire Be’eri in un anno”. Anche Nili Bar Sinai fa la spola tra il Mar Rosso e Be’eri, dove il marito Yoram è stato assassinato. «Vivere nella stessa casa senza di lui è duro, certo. Ma dove dovrei andare? Non ho altro posto. Nessuno di noi lo ha - sottolinea la psicologa 73enne -. Nemmeno i gazawi. Per questo non ci resta che imparare a vivere insieme".