L’anniversario. Ritornate a casa dopo 9 anni sei donne yazide «schiave del Daesh»
Le sei donne yazide liberate dopo nove anni trascorsi in mano ai terroristi del Daesh (Isis)
L’anno del nono anniversario del genocidio, sarà forse ricordato per questo: sei ragazze salvate in un colpo solo. I video del loro arrivo all’aeroporto di Erbil hanno fatto il giro dei telefoni e dei social degli yazidi sparsi nel mondo: i baci sulla fronte ai genitori, i fiori e le lacrime provavano ad annientare da soli gli anni di prigionia. Erano poco più che bambine quando i miliziani del Daesh (Isis) le hanno rapite nell’agosto del 2014 insieme ad altre 6.700 per essere vendute come schiave: la minoranza etnico-religiosa degli yazidi è stata la vittima privilegiata della violenza fanatica del Daesh in Iraq e la subisce ancora, in un limbo senza fine.
Nadia Murad, premio Nobel e vittima di quella stessa schiavitù, è stata la prima a dare la notizia di questa liberazione miracolosa in Turchia: ha ringraziato il presidente del Kurdistan iracheno Nechirvan Barzani e il lavoro di intelligente dello speciale dipartimento creato per riportare a casa i 2.707 rapiti di cui non si sa ancora nulla. Mogli, figlie e sorelle sono nascoste nel campo di al-Hol in Siria, mescolate alle vedove dei jihadisti. Sono nelle enclave desertiche della Siria in cui ancora il Daesh esiste e resiste.
Sono in Turchia e nelle case di certi “foreign fighter” tornati in patria. E poi ci sono i 5.000 morti e le decine di fosse comuni non ancora scavate, i 20mila bambini rapiti e naturalizzati in famiglie arabe o maltrattati o negli orfanotrofi perché nati dalle violenze e rifiutati dalla comunità. Pochi giorni fa anche la Gran Bretagna ha riconosciuto «formalmente il genocidio», unendosi a Germania, Francia, Paesi Bassi, Stati Uniti. L’Unitad, il team investigativo dell’Onu sui crimini del Daesh, dopo il lavoro avviato sulle fosse comuni annunciava nelle stesse ore la creazione di un archivio centrale digitalizzando otto milioni di documenti, utili ai Paesi che vogliono aprire processi. Solo la Germania ha emesso la prima condanna al mondo per crimini contro l’umanità ai danni degli yazidi: una coppia è stata giudicata colpevole di aver comprato madre e figlia e di aver fatto morire quest’ultima, una bambina di 5 anni.
Nei campi profughi vivono ancora in centomila, e non tutte le sopravvissute yazide, cristiane, turkmene e Shabak sanno di poter usufruire del sostegno occupazionale, economico e medico-psicologico previsto dalla “Yazidi Survivors Law”.
Anche se le procedure sono lentissime: 1.670 richieste, 838 approvazioni, seicento dollari mensili che arrivano dopo mesi, raccontano alcune Ong. Se da Ninive e dal Sinjar fuggirono in 400mila, 300mila sono ancora rifugiati nel Kurdistan iracheno perché in un’area senza sicurezza è difficile tornare. Il portavoce del Dipartimento di Stato americano Matthew Miller e il Consiglio Europeo hanno chiesto a Baghdad ed Erbil di rompere lo stallo politico e di nominare un sindaco a Sinjar, puntando il dito contro la mancata applicazione dell’accordo che prevedeva in primis il ritiro dall’area di tutte le milizie, specie quelle affiliate al Pkk. Se infatti la Turchia bombarda le milizie yazide Ybs, Unità di Protezione di Shingal, anche l’esercito iracheno si scontra periodicamente con questi gruppi oltre a gestire la forte l’influenza delle Pmf, Forze di mobilitazione popolare, legate all’Iran.
A luglio intanto le sei ragazze sono state celebrate come eroine in una festa pubblica. «C’è ancora speranza di salvarne altre», ha scritto Nadia Murad. Speranza di uscire da un limbo lungo nove anni.