Vent’anni dopo il primo incontro si riuniscono da oggi a venerdì, ancora una volta a Rio de Janeiro, i rappresentanti di oltre 180 nazioni per il summit Onu «Rio+20» sullo «sviluppo sostenibile» e lo stato di salute del Pianeta. La “La Cidade maravilhosa”, come amano chiamarla i brasiliani, si sente sempre più l’ombelico del mondo. In Brasile, e soprattutto a Rio, non importa tanto il contenuto ma la sensazione di contare, di essere considerati anche solo per il Cristo Redentore, il Pan di Zucchero o il Carnaval. Rio de Janeiro, che attende l’anno prossimo la Giornata mondiale della gioventù, nel 2014 i Mondiali di Calcio e le Olimpiadi nel 2016, si è fatta ancor più bella per accogliere la maggiore conferenza in termini di partecipazione della storia delle Nazioni Unite con 193 delegazioni presenti, guidate da capi di Stato, premier e ministri (per l’Italia il titolare dell’Ambiente Corrado Clini) e ben 50mila tra esponenti di Ong, ambientalisti, rappresentanti di aziende e giornalisti. Il pronostico di un risultato modesto – che si sta confermando in queste ore – è tradito dal profilo alquanto basso di molte rappresentanze: assenti praticamente tutti i big, a partire dal presidente Usa Obama, tutto quello su cui gli esperti dei Paesi presenti sono riusciti a raccogliere un consenso grazie a una lunga mediazione (nella quale ha avuto un ruolo di primo piano anche l’Italia) è un testo dal titolo «Il futuro che vogliamo» sulla <+corsivo>green economy<+tondo> che i leader dovranno votare entro venerdì. Un documento che però appare forzatamente generico e poco ambizioso. Lo stesso Sha Zukang, il diplomatico cinese a capo del Dipartimento delle Nazioni Unite per gli Affari Economici e Sociali e presidente del vertice, non aveva nascosto il suo pessimismo: «Le questioni fondamentali su cui i governanti sono chiamati ad esprimersi sono ancora irrisolte». Indiscrezioni trapelate nei giorni scorsi indicavano infatti che appena il 20 per cento della bozza di documento finale sarebbe arrivata a una pre-approvazione. Il rischio ora è che a misure concrete per garantire uno sviluppo sostenibile del pianeta si sostituiscano accordi di principio, paraventi alle reticenze dei singoli Stati, imbarazzate ma quasi inevitabili: impegni efficaci necessitano infatti di risorse ingentissime, che la crisi globale ha reso indisponibili. Per intendersi, il «G77», di cui fanno parte i 130 Paesi emergenti di America Latina, Africa, Asia del sud e la Cina, ha proposto la creazione di un fondo per progetti sostenibili dotato di 30 miliardi di dollari all’anno e ha insistito per «inquadrare nel contesto della “green economy” le sfide e le opportunità derivanti dall’introduzione dei principi di sviluppo sostenibile e dell’eliminazione della povertà», richieste respinte da Unione Europea e Stati Uniti. A differenza del vertice di vent’anni fa, sono proprio le nazioni sviluppate a non voler accettare sacrifici e investimenti a lungo termine in favore di un’economia sostenibile su scala globale e non limitata a casa propria. Il Brasile della “presidenta” Dilma Rousseff – oggi sesta economia del Pianeta e custode del “polmone verde del mondo”, l’Amazzonia – propone di «trovare un modello che metta insieme sviluppo sostenibile, crescita economica e inclusione sociale». Un’acrobazia che oggi pare ancora improbabile: è proprio su questa frase che a Rio si sperimentano le maggiori difficoltà per arrivare a un accordo sul futuro del pianeta. Se i Paesi sviluppati suggeriscono la via della “green economy” per uscire dal tunnel della recessione, dall’altra le nazioni del Brics (Brasile, India, Cina e Sudafrica) vedono nel rispetto di un’economia verde il pericolo di condizioni o standard ambientali capaci di mettere a rischio il proprio sviluppo in un momento storico in cui si stanno affrancando da secoli di dipendenza economica. Sullo sfondo, i dati diffusi dall’Onu e dalle Ong “globali” invitano a non perdere tempo: la deforestazione sarebbe aumentata al punto da provocare costi più alti all’economia mondiale di quelli causati dalla crisi finanziaria; la domanda globale di risorse sarebbe raddoppiata dal 1996, arrivando a superare del 50 per cento la capacità rigenerativa del pianeta; negli ultimi 20 anni le emissioni di carbonio sarebbero cresciute del 40 per cento; e – fatto certamente più grave di tutti – la denutrizione attanaglierebbe una persona su sei. Proprio questo punto diventa però terreno di un’ostinata ambiguità, che grava come un’ombra anche su «Rio+20»: le stesse agenzie infatti annunciano con toni allarmistici che entro il 2050 la popolazione mondiale arriverà a 9 miliardi e che per sopravvivere si dovrebbe poter contare sulle risorse di tre pianeti. Dati che preludono alle proposte per il contenimento delle nascite e la «salute riproduttiva» (l’accesso ad aborti e contraccezione di massa) cui Onu e agenzie internazionali ci hanno abituati.Intanto i Paesi più poveri chiedono misure concrete per uscire dalla povertà senza distruggere o svendere le proprie risorse naturali. Prima tra tutte, la risorsa-uomo.