Si allontana ancora in Pakistan il giudizio sulla richiesta di libertà dietro cauzione per Rimsha, la ragazzina disabile mentale accusata di blasfemia, mentre si aggrava la situazione dell’imam che l’aveva denunciata alla polizia per avere bruciato pagine con testi dal Corano. Ieri l’udienza è stata infatti rinviata a venerdì per uno sciopero degli avvocati, sollevando le proteste di chi è impegnato per garantire la liberazione di questa 14enne in isolamento da quasi tre settimane anche se in condizioni di favore. «Restiamo in ogni caso ottimisti – ha spiegato ad
AsiaNews il cattolico Paul Bhatti, consigliere speciale del primo ministro per l’Armonia nazionale – e siamo sicuri della liberazione. Purtroppo vanno seguite le procedure della giustizia ed è necessario procedere nei tempi e nei modi stabiliti dal diritto». Resta confermata al momento la scadenza del 13 settembre della custodia in carcere, chiesta dagli inquirenti per raccogliere elementi utili all’eventuale apertura di un procedimento penale che secondo la legge prevede fino alla pena di morte, anche se mai applicata e quasi sempre cancellata in seconda istanza dai giudici. Intanto, ieri una équipe medica pachistana ha presentato alla magistratura un secondo rapporto riguardante lo stato generale di salute di Rimsha. Lo studio ha confermato i risultati di uno precedente, e cioè che ha 14 anni e che è mentalmente ritardata. L’équipe è stata costituita su indicazioni della magistratura distrettuale della capitale dopo che l’avvocato dell’accusa aveva contestato il primo rapporto che, si sosteneva, «non era stato redatto con criteri di obiettività».Sul piano delle indagini, si è registrato sabato l’arresto di Khalid Jadoon Chishti, l’imam della moschea di Mehrabad, il sobborgo della capitale Islamabad nel cui ghetto cristiano abitava Rimsha insieme alla famiglia costretta alla fuga, con altre centinaia, dopo l’arresto della ragazzina il 16 agosto.La testimonianza del musulmano Hafiz Zubair, presentata alla polizia il 31 agosto, ha infatti inchiodato Chishti alla responsabilità di avere costruito prove false, inserendo pagine del Corano tra i frammenti di carta ritrovati nell’immondizia bruciata dalla ragazzina e violando così a sua volta la «legge antiblasfemia». Secondo gli inquirenti, a giustificare l’azione dell’imam sarebbe stata la volontà di costringere i cristiani ad allontanarsi dall’area, lasciando abitazioni e beni in balia dei musulmani locali.Una svolta che, per il direttore della sezione locale dell’organizzazione Human Rights Watch non solo è «senza precedenti», ma che potrebbe diventare un «deterrente contro facili accuse di blasfemia». Un’evoluzione che ha anche mostrato con maggior chiarezza i limiti nell’applicazione degli articoli del Codice Penale conosciuti come «legge antiblasfemia»: voluti nel 1986 dall’allora presidente, il generale Zia ul Haq, per garantirsi il sostegno degli islamici contrari alla sua politica repressiva, sono diventati una costante nel garantire la supremazia dell’islam radicale non solo sulle minoranza religiose, ma anche verso gli stessi musulmani. Il “caso Rimsha” si avvia probabilmente a una conclusione positiva, tuttavia – avvertono gli attivisti per i diritti umani – non ci si può fare illusioni sulla sorte della ragazzina e della sua famiglia. «I genitori restano nascosti per il timore di ritorsioni. Il loro futuro – avverte Paul Bhatti – è legato alla ricerca di un posto lontano e sicuro: la loro vita è stravolta, dovranno ricominciare da zero».Una speranza arriva dalla reazione delle rappresentanze dell’islam istituzionale, come Hafiz Tahir Mahmood Ashrafi del Consiglio degli ulema del Pakistan, che hanno difeso Rimsha e denunciato gli abusi della legge sulla blasfemia e chiesto la condanna dell’imam.