Etiopia. Ricucito lo strappo negli ortodossi. Nel Tigrai altri attacchi ai cattolici
Il clero ortodosso a Batu in Oromia
Superata la questione dello «scisma di sangue» nella Chiesa ortodossa nazionale etiope, la violenza colpisce la Chiesa cattolica, ancora una volta al nord, in Tigrai. Dove non si fermano nemmeno le violenze contro donne e civili da parte dei militari eritrei. La frattura nella Chiesa Tewahedo etiope è ufficialmente rientrata mercoledì 15 febbraio con l’annuncio della principale comunità religiosa del secondo Paese africano, uno dei pilastri dell’unità nazionale, di aver raggiunto un accordo con il sinodo scissionista dell’Oromia. Tre vescovi oromo il 4 febbraio si erano staccati dalla chiesa Tewahedo nominando 25 vescovi. I prelati lamentavano discriminazioni etniche da parte dei vertici, in maggioranza amhara e tigrini. Alla separazione erano seguiti disordini in Oromia, repressi dalla polizia federale con la forza, provocando decine di morti. Sul banco degli imputati era finito il premier Abiy Ahmed, di origine oromo, accusato di ingerenza negli affari religiosi dal patriarcato di Addis Abeba per aver invitato le parti al dialogo, quindi accettando di fatto la separazione.
Per domenica 12 febbraio, preceduta dalla sospensione di Internet, la Chiesa ortodossa etiope aveva convocato una giornata di protesta nazionale, scongiurata in extremis da Abiy che ha fatto retromarcia e avviato il dialogo. Mercoledì la conclusione, con la riammissione dei tre vescovi scismatici e la concessione di una diversa e più generosa riallocazione di fondi alle chiese in Oromia. Restano comunque le tensioni nella regione, dove almeno 50 persone sono morte da inizio febbraio per le violenze etniche, come reso noto dalla Commissione etiope per i diritti umani (Ehrc). Non trova ancora pace il Tigrai, dove gli accordi di Pretoria dello scorso 2 novembre tengono ma sono messi in pericolo dalla presenza delle truppe eritree che non si sono mai ritirate dal territorio tigrino nonostante le pressioni della comunità internazionale su Asmara. Il vescovo cattolico dell’eparchia di Adigrat Tesfaselassie Medhin, che nei due annidi conflitto ha denunciato le violenze e le sofferenze subite dalla popolazione della sua diocesi, ha dichiarato nei giorni scorsi che gli eritrei hanno distrutto a Seboya la chiesa della Santissima Trinità e una scuola cattolica. Il vescovo del Tigrai ha annunciato ai media regionali che i cattolici non hanno più un luogo dove celebrare i sacramenti. «La distruzione è molto triste – ha dichiarato il prelato – e no n sarebbe dovuta accadere. È solo una questione di tempo prima che gli autori di questo crimine vengano assicurati alla giustizia». L’occupazione dei soldati eritrei continua soprattutto nel distretto orientale di Gulo Mekeda secondo la tv tigrina. Le truppe asmarine, già accusate di stupri, violenze e massacri di civili durante i due anni di conflitto, starebbero continuando a violentare le donne, come confermato alla Bbc da operatori del settore sanitari o in Tigrai.
E che lo stupro continui a essere usato come arma di guerra lo conferma anche l’infermiera Mulu Mesfin, specializzata nell’assistenza alle donne vittime di violenze sessuali nell’ospedale Ayder del capoluogo Macallè. Mulu ha dichiarato alla Bbc che continuano a rivolgersi alla struttura persone violentate engli ultimi due mesi da tutte la regione. L’Eritrea non pare avere nessuna intenzione di ritirarsi. In una conferenza stampa tenuta a Nairobi il 9 febbraio con il presidente kenyano Ruto, il dittatore eritreo Isayas Afewerki ha ribadito che i militari con i sandali di plastica non se ne andranno dal Tigrai finché non sarà distrutto il Tplf , partito leader della regione settentrionale etiope e alla guida del paese fino al 2018, conisderati arcinemici dal despota asmarino.