Reportage. In Turchia tra i migranti: «Ecco perché ci mettiamo in mare»
Il quartiere di Basmane, a Smirne, in Turchia, dove si trovano piccoli hotel che ospitano chi sta per partire (Ghirardelli)
Seduti ad aspettare o indaffarati con i bagagli, da soli in un angolo o fra cugine, zii e fratelli, stretti attorno al capofamiglia che parla al cellulare a chissà chi: lungo le vie dell’antico quartiere di Basmane, sulla soglia di decine di affittacamere e pensioni, gente in arrivo da latitudini diverse e da alterne fortune si incontra, si scambia informazioni e unisce le forze per proseguire. Qui nel centro di Smirne, terza città della Turchia per dimensioni con i suoi 3 milioni di abitanti, dal 2015 fanno tappa coloro che puntano verso l’Europa, non troppo lontana, giusto al di là del mar Egeo.
Dopo il picco di quattro anni fa, quando in Grecia arrivarono 856mila persone, si era assistito a una forte frenata delle partenze per il controverso accordo tra Ue e Turchia del 2016. Ora, i viaggi sono ricominciati e il ritmo è incalzante: nel solo mese di settembre sono partiti da qui, diretti sulle isole greche dell’Egeo, 10.551 tra afghani, siriani, somali e cittadini di altre nazionalità. Da inizio anno in tutta la Grecia si sono registrati 48.500 ingressi (in Italia sono stati 7.900).
Mentre nuovi viaggiatori si avvicendano, il quartiere di Basmane non si fa trovare impreparato: dal barbiere l’insegna è bilingue come anche dal macellaio, dove i cartelli della carne in offerta sono scritti in turco, arabo e, per i clienti africani, in francese. Come nel 2015, ci sono botteghe che vendono giubbetti di salvataggio: 90 lire a pezzo, circa 13 euro. «Problem, problem!» grida il commesso in un negozio di ferramenta, quando cerchiamo di fotografarne un mucchio di almeno cinquanta, scoloriti e ammassati sul pavimento.
«Perché si torna a partire? Non esiste una sola ragione. Certo, la vita qui in Turchia è diventata più difficile che in passato. C’è risentimento fra i turchi che pensano che i fondi con cui ci aiutano provengano dal loro governo, mentre il denaro arriva da Croce Rossa, Ue e Onu. La Turchia è sicuramente il Paese che più ha dato una mano a noi siriani. Ma va sempre peggio» dice un ragazzo che chiede di restare anonimo. Ha ragione lui: la Turchia ospita la comunità di rifugiati più grande al mondo, 4 milioni di persone, di cui 3,6 milioni di siriani. Proprio nelle ultime ore l’offensiva militare turca contro i curdi lungo il confine sud orientale con la Siria dovrebbe servire a costituire una «safe zone», una zona "cuscinetto" di sicurezza. Lì il presidente Erdogan vorrebbe convogliare parte dei siriani che ospita e che, in risposta alle critiche dell’Occidente, ha minacciato proprio ieri di inviare in Europa a milioni. Il punto è che la questione migratoria è diventata politicamente spinosa anche per Ankara: le traversie del partito del presidente alle ultime elezioni municipali di Istanbul ne sono la prova. Un recente studio del Center for Migration Research della Istanbul Bilgi University mostra come sia trasversale a tutti i partiti turchi il sostegno all’ipotesi di rimpatrio dei siriani.
«Certo che ho pensato di andarmene illegalmente. Però ho un figlio e non voglio metterlo su una barca» prosegue il ragazzo che vuole restare anonimo. «Ma se mi rimandassero in Siria, la questione cambierebbe. Allora preferirei il mare. C’è chi nella polizia fa firmare richieste di rimpatrio ai siriani contro la loro volontà. Se ho prove dirette? Ho paura a dirlo, ma sì». Del clima pesante in Turchia parla anche Nathan che proviene dal Ghana: «Ho vissuto a Istanbul e da quando è in carica il nuovo sindaco i controlli della polizia fra gli stranieri si sono moltiplicati. Chiedono i documenti, per questo in molti se ne vanno».
Abdinasir, somalo di 30 anni, un diploma in business administration a Mogadiscio, è arrivato a Smirne un mese fa e ha già tentato cinque volte di attraversare l’Egeo. «Siamo sempre stati bloccati da polizia o Guardia Costiera turche e portati in carcere. Mezzo pane, un pomodoro e una bottiglietta d’acqua ogni 24 ore: è tutto quello che ci davano». Il viaggio in mare costa dai 1.000 ai 1.500 dollari, a seconda dell’imbarcazione. «Se non arrivi, non paghi e hai diritto a un nuovo tentativo. I numeri di telefono di chi organizza il trasporto li abbiamo ancora prima di arrivare in città. Io sono in contatto con un intermediario somalo, ma ce ne sono di molte nazionalità. Aspettiamo che chiami. Per raggiungere il gommone si sta nascosti in camioncini o in taxi. Nell’ultimo viaggio eravamo in 48, di cui 12 bambini». Si interrompe per dare una lira turca a un ragazzino che chiede l’elemosina. Gli domandiamo se ci sia informazione sulle condizioni terribili in cui versano i campi rifugiati delle isole greche. «Sì, ma se resti qui, non fai che perdere i tuoi soldi senza possibilità di ottenere i documenti. E comunque io non resterò a lungo sulle isole». Allora gli chiediamo se non lo spaventi la traversata in gommone. La domanda arriva mentre siamo seduti tra il suo amico Adam, somalo, e due ragazzi siriani. «Veniamo da paesi pericolosi, un’ora di rischio in mare non fa molta differenza».
Mohamad e Feras sono cugini. Sono di Damasco, ma hanno passato gli ultimi 5 anni in Libano. «Tutti i siriani vorrebbero andarsene da quel Paese oramai. È troppo costoso e non c’è lavoro. Prima si viveva meglio ma ora anche in Libano non ce la facciamo più, ci trattano come animali» dicono. «Qui in Turchia, poi, per noi siriani essere presi dalla polizia è ancora peggio che per gli altri. Io e Feras siamo stati fermati sulla costa e a Smirne avrebbero dovuto registrarci. Invece ci hanno rimandato a Kilis, sul confine con la Siria. Dopo 18 giorni di prigione, abbiamo avuto il nostro Kimlik, il documento di identità, laggiù, dunque in qualsiasi momento potremmo essere rispediti là. Pensavo ci riportassero in Siria: se accadesse, non aspetterei in minuto, mi ucciderei subito».
«Abbiamo ricevuto la chiamata, è per stasera» ci dice Abdinasir alla fine dell’intervista, ma un acquazzone fa saltare tutti i piani. Alle 6.07 di ieri riceviamo un messaggio: «Siamo arrivati in Grecia, grazie a Dio» e in un breve video si vede Abdinasir, gli occhi stanchi e un accenno di sorriso, che mostra il punto di approdo e sei piccole imbarcazioni. Ce l’ha fatta, ha attraversato il mare ed è rimasto vivo. Sull’isola di Lesbo ora lo attende un inverno di pioggia, fango e neve fra le tende del campo sovraffollato di Moria. Cosa l’aspetta non conta, però, almeno per un giorno. Perché in viaggi travagliati come il suo, tra rischi e ostacoli che fiaccano lo spirito, si impara presto a fare come in un antico detto orientale: soffrire per quello che c’è da soffrire, gioire quando si può provare gioia.