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La Chiesa per i profughi. Galantino in Giordania tra i cristiani esuli: «Siete perseguitati, non dimenticati»

Ivan Maffeis sabato 8 agosto 2015
Se a ritroso sfogli il calendario degli ultimi dodici mesi, probabilmente ne escono in ordine sparso appuntamenti, telefonate, treni, corse e ritardi; e volti, incontri, storie di vita. Le pagine dell’agenda di un profugo sono invece identiche l’una all’altra: tutte bianche, intonse e vuote, per un tempo che non ritorna. «I nostri talenti restano sepolti, senza che ci sia offerta alcuna possibilità di valorizzare chi siamo, le nostre arti e abilità: e non è forse pure questa una lenta condanna a morte?». L’uomo, rivolto a monsignor Nunzio Galantino, scandisce parole che cadono in un silenzio attento e dignitoso, animato solo dalle voci dei bambini più piccoli, in braccio a giovani madri.

(Profughi preparano il pasto per la comunità)Siamo ad Hanina, un quartiere di Amman, dove la Caritas giordana ha allestito un campo profughi nei locali della parrocchia; analoga scena si ripropone quando ci spostiamo nei centri d’accoglienza di Mar Elias, di Hashmi e di Jabal al Hamman.

(Galantino parla con i profughi e i volontari della Caritas giordana) I primi profughi iracheni sono giunti l’8 agosto 2014. Provengono da Mosul, Qaraqosh, Talkief e Karamles, città e villaggi della Piana di Ninive: quell’antica Mesopotamia dei capitoli iniziali della Scrittura Sacra, poi culla delle comunità cristiane degli albori. Da un anno per queste Chiese non c’è più posto: i jihadisti dell’auto-proclamato Stato islamico li hanno costretti a scegliere tra la conversione all’Islam, la morte o l’esilio, previo abbandono di ogni bene.

(Una bambina cristiana fuggita dalla Piane di Ninive in Iraq) «Abbiamo scelto Gesù Cristo – dice un papà – con la fiducia che non ci lascerà soli. Un segno della sua presenza l’abbiamo toccato con mano nell’accoglienza solidale assicurataci dalla Caritas giordana». «Non possiamo né più vogliamo tornare in Iraq – gli fa eco un amico –: le nostre chiese sono state violate, spogliate e distrutte o adibite ad altro; le nostre case sono occupate da quei vicini con i quali fino a ieri abbiamo convissuto. Quello che chiediamo è l’aiuto ad abbattere i tempi per un visto e un Paese disposto a darci l’opportunità di ricominciare».

(La preghiera dei profughi) «Finché rimaniamo qui – precisa un altro – siamo condannati ogni giorno all’umiliazione di non aver risposta alle tante domande che ci pongono i nostri figli. Da un anno non frequentano alcuna scuola, rimpiangono quaderni, libri e insegnanti, con i quali costruivamo il loro futuro. Le nostre famiglie qui vivono in piccoli loculi, senza alcuna privacy, con le poche cose raccolte nella borsa della spesa».

(Ragazze cristiane irachene nel campo profughi) Il segretario generale della Cei ascolta, spostando rapidamente gli occhi dall’uno all’altro. Accogliendo l’invito del Patriarca latino, Fouad Twal, Galantino è in Giordania per un incontro con migliaia di profughi iracheni: promosso dalla Chiesa latina e presieduto dal Patriarca di Babilonia dei Caldei, Louis Raphael Sako, l’evento ha riunito cristiani delle diverse confessioni.

(Galantino con Susanna, la più piccola) Mentre monsignor Galantino legge con cura la lettera che gli ha affidato Papa Francesco – nella quale esprime partecipazione e vicinanza a questo popolo «perseguitato e oppresso» – scendono lacrime sui volti di tanti. E quando prende la parola lo fa senza cedere a facili promesse: «Sono qui a nome di tutti i vescovi italiani – dice – per esprimervi gratitudine di fronte alla grande testimonianza di fede che ci offrite. Vi dico che siete perseguitati, ma non dimenticati; quello che possiamo fare è davvero poco, ma non verrà meno e si unisce al notevole impegno con cui il Patriarcato e la Caritas vi sostengono». Quest’ultima – che al presente conta duemila giovani volontari – è sorta proprio in risposta all’emergenza profughi: era il 1967, quando a scappare dal conflitto con Israele erano i palestinesi. Nel 1982 è la volta dei libanesi, quindi – negli anni Novanta, in seguito alla guerra dell’Occidente a Saddam – degli iracheni. Dal 2013 gli scontri in Siria hanno riversato in Giordania un milione e 400 mila profughi. Alla caduta di Mosul, il Regno hascemita ha aperto le frontiere a circa 8.000 fuggitivi. In un Paese di 6 milioni e mezzo di abitanti, oggi si stimano almeno 3 milioni di profughi: cifre che fanno della Giordania il primo al mondo per rapporto tra popolazione autoctona e rifugiati. https://www.youtube.com/embed/oBRus0QK3J4" frameborder="0" allowfullscreen> Latitanti restano invece i pellegrini: quando, tra la visita a un campo e l’altro, raggiungiamo il Monte Nebo, padre Fergus ci accoglie confermandoci che siamo le prime persone che vede: «Quassù siamo rimasti soltanto tre frati francescani. Serviranno anni prima di vedere il ritorno di gruppi di fedeli». «Siamo una Chiesa del Calvario e, più ancora, una Chiesa di orfani, trascurata dalla comunità internazionale», aggiunge monsignor Fouad Twal che rivolge un pressante appello ai cristiani: «Tornate in Terra Santa, venite a pregare con noi e per noi per la pace, per formare insieme la Chiesa della risurrezione».

(L'educazione per costruire il futuro, strumento di speranza) Proprio il direttore della Caritas giordana, Wael Suleiman, confida il suo stupore: «Per i profughi siriani riceviamo aiuti da tutto il mondo, ma quando i perseguitati sono cristiani non arriva nulla: l’Onu ha fatto solo promesse, come i tanti ministri e rappresentanti di organizzazioni che sono passate senza poi farsi più sentire». A farsene carico sono rimasti i locali: «In tutte le chiese della Giordania la nostra gente si è tassata, raccogliendo un milione di dollari, a cui si aggiungono gli aiuti della Caritas tedesca, di quella statunitense e della Santa Sede. Se i profughi iracheni saranno costretti ad andarsene in Europa o in Australia – conclude Suleiman – perderanno la loro identità e le loro tradizioni religiose; se li aiutiamo a resistere ancora un paio d’anni, finiranno per inserirsi nel nostro tessuto sociale». Un contributo decisivo in questa direzione lo pone monsignor Galantino, quando annuncia l’impegno della Chiesa italiana di farsi carico della formazione scolastica dei 1.400 ragazzi profughi iracheni. Una risposta puntuale, che si muove nella linea auspicata da Papa Francesco e che arriva quasi a commento del canto «Tu sei la mia vita, altro io non ho», pregato in arabo da gente che non ha davvero altro.

(Gli alloggi dei profughi cristiani)