Stati Uniti. L’ansia in un colpo di tosse, in fila per il test a New York
Un punto per i test a Miami. Nei «drive through» gli automobilisti possono fare il tampone senza scendere dai loro veicoli
«Calmati, non ho tempo per una crisi di nervi!». La tensione latente scoppia, poi la giovane coppia si chiude in un silenzio rancoroso. Da quasi un’ora aspettano di farsi infilare uno stecchino di plastica nel naso e scoprire, fra un paio di giorni, se hanno il Covid–19. Sono in un atrio dell’ospedale Lenox Hill di Manhattan, nel lussuoso Upper East Side, gomito a gomito con una trentina di persone che, come loro, temono di aver contratto il virus. Fanno parte di una nuova ondata massiccia di test lanciata negli Stati Uniti, dove sono stati finora diagnosticati 12mila casi di contagio, con 172 morti.
Molti, nella stanzetta sulla 77esima strada, tossiscono. La giovane donna e il fidanzato indossano una mascherina, ma più della metà dei newyorkesi che, come loro, hanno appuntamento alle 11 di mattina, non ne ha ancora ricevuta una. È stato l’ennesimo colpo di tosse a far perdere le staffe alla ragazza e a farle urlare al compagno che venire all’ospedale era stata una pessima idea, la sua.
Mentre nello Stato di New York nelle ultime ore due centri di screening «al volante» hanno aperto i battenti e il governatore Andrew Cuomo ha promesso che un’altra mezza dozzina sarà operativa al più presto, gli abitanti della metropoli che si sottopongo al test incontrano situazioni disparate a seconda dei centri in cui si recano. In televisione scorrono immagini di medici del Mount Sinai Hospital in tuta protettiva che fanno entrare un paziente alla volta in ambulatori sterili, attraverso corridoi vuoti. A pochi isolati di distanza, l’esperienza è ben diversa.
Al Lenox Hill l’ingresso di chi deve sottoporsi all’esame è separato da quello dei pazienti non a rischio. E il nosocomio ha riservato un’ala intera ai tamponi nasali. Tutto il resto è un esempio di cosa non si deve fare per evitare il contagio.
Dopo aver atteso venti di minuti nell’atrio, il gruppo sfila davanti a un agente di sicurezza che, solo a quel punto, chiede di cospargersi le mani di gel a base di alcool e di prendere una mascherina da una scatola. Quindi i pazienti sono diretti verso una scrivania dove un’infermiera controlla che i loro nomi siano sulla sua lista, misura loro la febbre e impartisce le istruzioni successive: bisogna salire al secondo piano. L’ascensore è grande, ma gli otto passeggeri sono a contatto stretto. All’interno, si guardano per qualche secondo, finché qualcuno non fa la domanda che è già passata per la testa di tutti: «Chi schiaccia il bottone?». Un giovane spinge il due con il gomito. Quando le porte si aprono, il gruppetto si riversa in un corridoio stretto, dove sono in fila già 21 persone. Vi resteranno per quasi un’ora mentre infermiere, medici e altri pazienti sfileranno frequentemente nel piccolo passaggio fra loro e il muro, protetti solo da una mascherina e dei guanti. Un agente ogni tanto ricorda di «mantenere le distanze», ma è impossibile lasciare più di 40 centimetri fra il proprio naso e la nuca del vicino. «Ho bisogno di aiuto, c’è una donna che si sente male». Si sente l’urgenza nella voce dell’infermiera che emerge da una delle sale. L’anziana che viene spinta fuori poco dopo in sedia a rotelle ha la testa appoggiata al petto. Per passare il tempo, molti guardano il telefono. Ma le notizie non sono rassicuranti. «Trump ha detto che ci saranno ripercussioni contro la Cina, che il mondo sta pagando il prezzo dei loro errori», dice qualcuno, suscitando sia assensi che mugugni. Meglio lasciar perdere la politica.
All’uscita dell’ospedale, l’umore generale è cupo. «Volevo fare il test per essere più tranquillo – dice un uomo –, ma ora ho più paura di prima». La giovane coppia lo guarda e si allontana. Sembrano ancora arrabbiati.