da Gdeim Izik(al Aaúin, Marocco)
Il viaggio dura circa quaranta minuti, nascosti sotto una coperta, ai 30 gradi del Sahara Occidentale. Il furgone è gremito di uomini, donne avvolte negli
elmalhfa saharawi e di bagagli. Si ferma tre volte, una per ogni posto di blocco marocchino. Ma siamo fortunati, c’è una tempesta di sabbia in atto, per cui i militari parlano solo al conducente e fanno cenno di passare. Sono gli stessi soldati che, di lì a poco, bloccheranno ogni passaggio verso Gdeim Izik, il “Campo della dignità”, e vi entreranno in forze, smantellandolo. Difficile immaginare che saremo gli ultimi giornalisti stranieri a giungere clandestinamente nell’accampamento, sorto a circa 12 chilometri di sabbia dalle ultime case alla periferia est di Al Aaiún. Un pezzo di deserto, di proprietà di un saharawi, sul quale, nel giro di neanche un mese, sono state issate quasi 8 mila
jaimas, le variopinte tende dei nomadi. Fino all’alba di lunedì la capienza massima del campo superava le 20mila unità. Donne e uomini che avevano deciso di abbandonare la città, per rendere visibile la loro protesta contro la disuguaglianza sociale, la discriminazione sul lavoro e la spoliazione delle risorse naturali di questa terra, ricca di fosfati e bagnata da uno dei tratti di mare più pescosi dell’Africa settentrionale. «Per i saharawi non è garantito il diritto all’istruzione, né al lavoro, né alla casa. Questo è l’unico modo per far valere le nostre rivendicazioni», spiegava Daich Edafi, membro di uno dei comitati interni al campo, quello diplomatico. E dire che l’annosa questione dell’autodeterminazione di questo lembo di Sahara, occupato dal Marocco esattamente 35 anni fa, era rimasta sullo sfondo. «La nostra è una protesta sociale, dei negoziati deve occuparsi il Fronte Polisario» non faceva che ripetere Ennaama Asfari, copresidente del Comitato per il rispetto delle libertà civili e dei diritti umani nel Sahara occidentale (Corelso). Lo hanno arrestato domenica sera. Secondo fonti saharawi sarebbe stato malmenato fino a perdere i sensi.La protesta era iniziata alle 10 del mattino del 10 ottobre scorso. Inizialmente le
jaimas erano poche centinaia, poi sono aumentate giorno dopo giorno. E il via vai dalla città è diventato continuo. Analoghi accampamenti di protesta intanto sorgevano accanto alle altre maggiori città, come Smara, Bojador e Dakhla. Qui, però, la repressione del governo di Rabat è stata istantanea, così molte persone hanno deciso di confluire verso Nord. L’esercito marocchino ha piantonato per quasi un mese la via d’accesso a Gdeim Izik, attraverso una triplice linea di controlli, l’ultimo dei quali in corrispondenza di un muro, tirato su velocemente sul finire di ottobre, per cingere l’intero campo. In precedenza le jeep saharawi erano libere di aggirare i
check point, dirottando nel deserto. E non di rado i militari marocchini hanno aperto il fuoco. Come il 24 ottobre scorso, quando a perdere la vita era stato Nayem El Garhi, un ragazzino di 14 anni.Da allora l’esercito di Mohamed VI si era limitato a controllare i veicoli, ostacolando l’ingresso di viveri, provviste, del cemento per costruire bagni adeguati. Una penuria che, all’interno dell’accampamento, iniziava già a mostrare i suoi segni. L’infermeria limitata a una manciata di medicinali. La fila per l’acqua davanti a un paio di autobotti e a un pozzo. La luce delle candele per illuminare le tende di notte. L’immondizia accatastata in una sorta di discarica, poco distante dal campo. I bisogni fisiologici affidati al deserto, con qualche riguardo per le donne, cui era riservata un’area riparata dai cespugli. Per la gestione di quella che stava ormai diventando una città, erano sorti tre comitati interni. Quello per la sicurezza gestiva un proprio
check point alle spalle di quelli marocchini, un altro si occupava di negoziare con l’esercito di Rabat, l’ultimo, infine, amministrava le questioni pratiche all’interno dell’accampamento, dalla spazzatura ai rifornimenti. «È in atto un vero embargo, cercano di farci stancare – diceva Asfari – è come se fossimo due uomini, ognuno con un dito tra i denti dell’altro. Entrambi mordono e non vogliono mollare per primi il dito altrui». Alla fine il Marocco, quel dito, ha deciso di mozzarlo.