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Il referendum. Svizzera al voto per tagliare i fondi alle industrie delle armi

Lucia Capuzzi sabato 28 novembre 2020

Addio alle armi. Forse. La Svizzera andrà alle urne domani per decidere se tagliare i fondi alle aziende belliche. Una scelta in linea con la tradizione di neutralità della Confederazione, sostengono i promotori del referendum. Ovvero i giovani Verdi e il Gruppo per una Svizzera senza esercito che hanno raccolto più delle 100mila firme necessarie per realizzare l’iniziativa popolare con cui si chiede di vietare i finanziamenti alle imprese produttrici del cosiddetto «materiale bellico convenzionale». Investimenti e commercio di armi biologiche, chimiche, nucleari, mine anti-uomo e munizioni a grappolo sono già fuori legge. L’ulteriore stretta riguarderebbe la possibilità della Banca nazionale svizzera, delle assicurazioni statali per la vecchiaia e invalidità e dei 1.500 istituti di previdenza professionale di destinare una parte del proprio portafogli alle società che ricavino da armi e componenti almeno il 5 per cento del proprio fatturato. Per quanto riguarda banche e istituti privati, invece, se vincesse il sì, la Confederazione si dovrebbe adoperare a livello nazionale e internazionale perché queste siano obbligate a condizioni analoghe. Non c’è un dato ufficiale degli investimenti dei soggetti pubblici svizzeri nell’industria bellica.
Lo studio più recente parla di 4 milioni di dollari l’anno di fondi solo da parte dei fondi di previdenza. Una cifra importante. La Confederazione, del resto, è una delle principali piazze finanziarie globali: da questa dipende un quarto del portafoglio complessivo. L’impatto reale sui produttori d’armi sarebbe, dunque, rilevante. A questo l’effetto-traino: la Svizzera sarebbe il primo Paese al mondo a chiudere i rubinetti al settore bellico, rappresentando un precedente e un possibile esempio. Per il fronte del no, si tratterebbe al contrario di un autogol: verrebbero pregiudicate quelle piccole e medie imprese solo marginalmente coinvolte nella produzione di armi. «È incompatibile con i nostri valori», affermano, invece, i promotori e le organizzazioni pacifiste. La stessa motivazione è alla base del secondo quesito referendario su cui i circa sette milioni di elettori dovranno pronunciarsi domani. Stavolta, in primo piano, c’è un altro tipo di conflitti, quelli invisibili e non dichiarati che hanno per oggetto le risorse naturali. La proposta di oltre 130 organizzazioni della società civile, trecento imprenditori e migliaia di volontari in più di quattrocento comitati locali punta a rendere responsabili nei confronti della legge elvetica le multinazionali, con sede in Svizzera, per eventuali danni ambientali e violazioni dei diritti umani commessi all’estero. Una misura respinta di recente dal Parlamento perché ritenuta troppo vincolante. Da qui la scelta dei promotori di giocare la carta del referendum, attraverso l’iniziativa “multinazionali responsabili”. Una disciplina in linea con quanto già approvato in Canada, Francia e Gran Bretagna. A favore del sì, si sono schierate la Conferenza episcopale svizzera e le Chiese riformate. L’esito del doppio voto resta, però, incerto fino all’ultimo. Perché le proposte passino occorre la maggioranza degli elettori e dei ventisei cantoni. Ed è quest’ultima, soprattutto, ad essere in forse, a causa dell’opposizione di alcune zone rurali.