Sudan. I racconti delle donne rifugiate: siamo vittime due volte
Da quando è iniziata la guerra civile in Sud Sudan non si è interrotto il flusso di rifugiati verso i confini del vicino Uganda. Come spiegano ad Acnur, si è ormai superata la soglia psicologica del milione di persone. Per capire gli effetti della guerra in atto si possono fare analisi politiche, economiche e persino psicologiche. Qui si è preferito dare voce alle persone: rovesciare il punto di vista. Invertire l’ordine dei fattori. Vedere gli effetti, per capire le cause.
Ecco le loro storie.
Jane Asunee ( Yei, Sud Sudan) «Ad ottobre sono stata violentata, e da allora mio marito ha detto che non voleva che io e lui stessimo in uno stesso posto come prima – avendo rapporti sessuali – perché ero stata abusata e potevo trasmettergli una brutta malattia (la sua gente ha detto che se avessi cucinato del cibo, loro l’avrebbero rifiutato). Poi, il figlio che portavo in grembo non era di mio marito, veniva dalla violenza. La mia famiglia diceva che mio marito doveva stare con me, ma lui non ha voluto. Ho pensato di suicidarmi. Dal villaggio ci siamo incamminati verso l’Uganda. Mio marito no: lui si è fermato in Sud Sudan. Io ho cercato di tornare con il mio bambino. Ma non me lo permettono. Sono senza sorelle né fratelli: come farò a sopravvivere qui in Uganda? Sono da sola, non so niente della guerra, sono una donna, so solo che gli uomini si sparano e si massacrano. Non so cosa succederà, tutto è nelle mani di Dio».
Hanne Akello ( Yei, Sud Sudan) Teddy è scappata dal Sud Sudan con due fratelli. «I nostri genitori, dopo che è stato ucciso il nostro vicino di casa, hanno preso tutti i risparmi: siamo scappati. Abbiamo camminato per due settimane. Molte donne sono state violentate durante il viaggio verso l’Uganda, alcune addirittura qui, nel campo profughi. Questa è stata una delle cose che noi donne abbiamo sofferto di più. Il primo passo per noi è uscire allo scoperto e parlare delle violenze che abbiamo subito. Della guerra non so nulla, so solo che c’è. Ma so anche che Dio si prende cura di noi, se chiedi ti dà».
Mira Faymoresh (Laya, Sud Sudan) «Sono arrivata al campo il 3 di ottobre 2016 con tutta la mia famiglia: siamo in 14 persone (marito, moglie, 10 figli, 2 nonni). Nel villaggio sparavano, la gente veniva massacrata, altri venivano colpiti dentro la propria casa. I ribelli sono arrivati mentre stavo partorendo, hanno attaccato l’ospedale. L’esercito ha risposto al fuoco: ci hanno inseguiti con le pistole, uccidendo tre donne che stavano partorendo come me. Io sono riuscita a scappare. Bruciavano le case, uccidevano, e i bambini li appendevano agli alberi. Ho vissuto già tre guerre: nella prima, 1967, ero piccola; nella seconda, 1993, avevo due figli; questa è la terza e ho dieci figli. Tutte e tre le volte sono scappata in Uganda. Vorrei che i miei figli potessero studiare».
Michael Taban Amos 52 anni (Equatoria, Yei) «Sono al campo dal 5 ottobre 2016 con la mia famiglia: siamo in 9, io mia moglie e i miei figli. Nel 2011 eravamo felici dell’indipendenza, ma poi è diventata una tragedia: abbiamo rimpianto quello che c’era prima della separazione per il disordine che è seguito. Dopo l’indipendenza abbiamo avuto un governo che non ci considerava persone. È stato un insieme di sensazioni, perché avevamo la gioia e la felicità di essere una nazione, ma siamo presto caduti in una situazione terribile, in cui la gente non riconosceva i propri simili come esseri umani. Abbiamo bisogno di un governo che sia inclusivo: se la pace arriva, sarà necessario un governo federale per avere parità fra le tre regioni (Equatoria, Alto Nilo e Bhar el Ghazar). Ma se rimane Salva Kiir al potere, anche in caso di pace, la gente continuerà a fuggire in Uganda: questa è la realtà, perché abbiamo visto con i nostri occhi e sperimentato cosa Salva Kiir sta facendo in Equatoria. È un problema di leadership, non etnico: abbiamo bisogno di un leader che sia fedele al popolo e non alla propria tribù. Solo allora ci sarà la pace in Sud Sudan. Adesso c’è una grande differenza rispetto alla guerra del 1983 e anche del 2005: lì combattevamo contro gli arabi, tutte le tribù erano unite per combattere il nemico comune, ma la guerra del 2013 che poi è esplosa nel 2016 ha una base etnica. Le altre guerre non avevano tanti morti quanto quella attuale: la gente viene massacrata continuamente. A dicembre 2013 ero a Juba e in quei giorni hanno ucciso talmente tanta gente che non si riuscivano a contare le vittime. Vorrei chiedere al governo Italiano di sostenere i rifugiati. Soprattutto di aiutarci con la scuola: perché i ragazzi sono i leader del futuro. Se i nostri figli non avranno accesso all’educazione, allora, anche se arrivasse la pace, non ci saranno opportunità reali. Infatti, il caos attuale è dovuto in gran parte al fatto che i nostri capi non hanno una formazione, non sono preparati: non avendo strumenti culturali, la gente crede di poter risolvere i problemi con le armi. Per questo noi stiamo soffrendo. Chiederei anche agli italiani di fare pressioni sul governo del Sud Sudan affinché metta in atto ogni sforzo per raggiungere la pace. In modo da permetterci di tornare a casa. Al momento siamo disperati. Preghiamo Dio tutti i giorni e la comunità internazionale, perché il governo del Sud Sudan riconosca i diritti umani e ci porti alla pace. Ringrazio Dio per averci dato una nazione vicina accogliente, che ci dà la terra e l’acqua pulita».