Valencia. «Noi da soli a lavorare nel fango, la politica ci ha abbandonati»
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Acqua passata, fango no. E neanche la rabbia della gente. La Dana (acronimo spagnolo per “depressione isolata ad alta quota”) che due settimane fa ha scatenato l’inferno su settantaquattro Comuni intorno Valencia, lascerà il segno a lungo. Per vedere i paesi più massacrati servono calosce e mascherine (molta polvere e un certo rischio d’infezioni) e ci si muove quasi solo a piedi. Calamità o no, i cambiamenti climatici qui sono (stati) sfacciati. Cristian Iborra spala dentro un garage ancora gonfio d’acqua e fango: «Lavoriamo da tredici giorni, non viene nessuno, esercito, pompieri, Unità militare d’emergenza, nessuno, siamo soli. Ci sono solo i volontari e le persone che arrivano dai paesi vicini e così andiamo avanti». Una specie di litania: quel «siamo soli» lo ripetono tutti, ovunque. Catarroja e Massanassa (insieme, quasi 35mila abitanti), per esempio, sono in ginocchio da far paura. E non c’è alcuna fila dei mezzi di soccorsi. Anzi.
Le cataste di macchine martoriate e infangate fanno impressione e s’incontrano spesso, la racconta lunga solo guardarle. «Da quel martedì non abbiamo chiuso un giorno – spiega Carmen Tramoyeres, farmacista a Barrio Del Christo, quartiere di Poblet –: tutta la gente di Aldaia, qui vicino, colpita duramente anche se i mezzi d’informazione non ne hanno parlato troppo, ha cominciato ad arrivare da noi. Soprattutto anziani, a piedi, pieni di fango, tanti piangendo».
Il fatto è che da queste parti non solo sono davvero molto arrabbiati perché la macchina dei soccorsi s’è mossa tre o quattro giorni dopo la catastrofe, ma anche perché non è stato dato alcun allarme prima. A proposito, invece, l’altro ieri sera alle 19 e 46 sui nostri cellulari ha suonato ed è entrato un lungo messaggio: «Alerta nivea rogo en todo el litorale de Valencia», “Allerta di livello rosso in tutto il litorale di Valencia”, per quasi ventiquattr’ore. Nelle quali, poi, ha piovigginato poco o nulla.
Eppure ben prima del 29 ottobre non era affatto un mistero la piega che avrebbe preso il cielo: «Tutti i comuni, incluso il mio, tre, quattro giorni prima avevamo ricevuto avvisi da parte dell’Agenzia di emergenza – racconta Martin Pérez, che è il presidente della associazione autonoma della Protecion civil di Valencia e il capo della Protecion civil di Moncada (11 chilometri da Valencia) –. Ogni allerta, all’inizio arancione, poi rossa, diceva che sarebbe arrivata una Dana. Ma la decisione di fermare gli spostamenti della gente, sospendere il lavoro, muovere i mezzi di soccorso, non spetta ai comuni, è della comunità autonoma». Morale? «Visto che si poteva prevedere cosa sarebbe successo, si è perso troppo tempo prima d’avvisare le persone di non uscire di casa e di attivare il Centro di coordinamento operativo integrato e l’Unità militare d’emergenza». Tempo costato un bel po’ di vite umane e distruzione.
Un altro fatto è la situazione politica. Gli attacchi reciproci vanno avanti da un pezzo e mettiamola facile: la provincia di Valencia è governata da Carlos Mazòn (che ieri ha fatto per la prima volta autocritica), cioè Partido popular, il capo del governo spagnolo è Pedro Sànchez, cioè Partido socialista obrero español (Psoe, sinistra) e maggioranze e opposizioni s’accusano senza complimenti d’essere responsabili di quant’è successo. Solo che la gente adesso ce l’ha con entrambi, e basta guardare certe scritte (non riferibili) con lo spray sui muri dei paesi colpiti. «La politica è così: decisioni, non decisioni, tutti si danno la colpa – dice Laura Bueno Martinez, che vive a Catarroja, dopo aver ricordato il terrore di quelle ore, dell’ondata di fango fino due metri d’altezza e d’essere rimasta tredici giorni, senz’acqua, né luce –. Siamo tutti arrabbiati per le perdite, l’impotenza, tutto». Elisabetta Fontelles ha sessantacinque anni ed è a Moncada: «Non ha funzionato niente per colpa della politica. Chi governa Valencia dice che l’emergenza era competenza di Madrid, Madrid dice ch’era di Valencia e la gente è finita nella m…». Anche Amparo Monzo è di Moncada: «Per giorni, non è arrivato l’aiuto di nessuno». E qualcuno ha già fatto i primi conti: 5 miliardi di euro è solo la stima iniziale dei danni.
C’è tanto dolore. Così tanto che, a parlare di quei giorni, scoppiano in lacrime. Visto l’andazzo e l’aria che tira, non stupisce granché che la gente neppure creda troppo ai numeri ufficiali che (a oggi) riportano 222 persone rimaste uccise. Pau Mortes, ventisei anni, è andato ogni giorno ad aiutare volontariamente: nei posti più colpiti: «La Polizia a cavallo ha pattugliato la spiaggia del Saler, che è a sud di Valencia, è ha trovato cadaveri portati fin lì dalla Dana, come uno tsunami».
La tragedia è difficile descriverla, meglio scegliere una frase di nuovo di Martin Perez: «Ci vorranno tre anni per rimettere tutto a posto». I danni materiali, almeno.