L'analisi. Quell'«isola» nell'Europa adesso deve fare un passo in avanti
Lo yacht con il quale l'imprenditore Yorgen Fenech intendeva fuggire da Malta (Ansa)
Quasi un meccanismo a orologeria: poche ore dopo la garanzia di impunibilità che il premier maltese Joseph Muscat aveva offerto all’uomo che verosimilmente aveva fatto da tramite fra i mandanti e gli esecutori del barbaro omicidio della giornalista Daphne Caruana Galizia, le forze armate maltesi hanno intercettato in mare e arrestato l’imprenditore Yorgen Fenech, che a bordo del suo yacht tentava la fuga dall’isola. Fenech è uomo noto a Malta. Non solo per la sua ricchezza e influenza (la Tumas Group che amministra possiede alberghi, casinò e licenze per il gioco d’azzardo online), ma soprattutto perché è titolare del fondo «17 Black», una rete di società offshore con le quali movimentare una vertiginoso flusso di denaro di opacissima provenienza – ma a volte di chiarissima destinazione – con cui corrompere, intimidire, blandire, fino a giungere ai piani alti del governo maltese. Daphne, giornalista coraggiosa e caparbia, aveva smascherato l’attività primaria di «17 Black». Per questo è stata uccisa. Se le accuse venissero confermate, per l’imprenditore si apriranno le porte di una lunga detenzione.
Ma un tardivo atto di giustizia non cancella un passato assai poco trasparente. Il problema tuttavia è ben lungi dall’essere risolto. Come un tempo le Isole del Canale o le Cayman, da qualche anno Malta è divenuta la terra promessa per chi ha poca simpatia per le tasse. Migliaia fra privati e imprese si domiciliano sull’isola – magari senza mai avervi messo piede –, attratti da un’imposizione fiscale molto invitante: l’aliquota sui profitti d’impresa, normalmente attorno al 35%, a Malta può scendere fino al 5%, mentre sono esentasse gli interessi sui prestiti e le royalties su marchi e brevetti, così come irrisorie sono le tasse su natanti e yacht intestati a società maltesi. Un Eldorado che attrae oltre cinquecentomila fra persone fisiche e imprese – 8mila delle quali di proprietà di italiani – senza tuttavia connotarsi formalmente come paradiso fiscale (con splendido eufemismo la Ue le definisce: «Giurisdizioni fiscali non cooperative»), anche se il gettito che ogni anno viene sottratto da Malta agli altri Paesi supera i 4 miliardi di euro all’anno.
Non stupiamoci dunque se attorno alla piccola ma accogliente isola – accoglienza che è apertissima ai capitali quanto è chiusa e ostile ai migranti – ruota una massa vorticosa di denaro. E con essa gli inevitabili meccanismi di corruttela e di opacità che da sempre contraddistinguono le Tortughe di ogni parte del mondo. Perché alla lunga nient’altro che questo è un paradiso fiscale (o ciò che gli somiglia da vicino): un covo di bucanieri dove poter nascondere con agio il bottino delle proprie razzie, un tempo fatte di dobloni luccicanti, oggi di denaro sporco, conti correnti, titoli al portatore. C’è troppo poca Europa in questi paraggi e non basta un’operazione di polizia dopo due anni di indagini su un omicidio eccellente a convalidarla. Ma non pensate che Malta sia la sola a navigare in questi torbidi mari. La superciliosa Olanda, la stessa che bacchettava e invocava rigore spietato nei confronti dei Paesi mediterranei di manica troppo larga in materia di bilanci, è sotto la lente di ingrandimento della Ue e della Francia: troppo generosa in termini fiscali nei confronti delle imprese che trasferiscono nei Paesi Bassi la propria sede legale – come ha fatto la Fca, per citarne una –, ma del resto, mozartianamente, dall’Irlanda a Cipro al Lussemburgo così fan tutti. O per essere precisi, così fanno i ricchi. Perché queste agevolazioni sono fatte esclusivamente per loro. Per tutti gli altri, l’isola del tesoro non esiste.