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Padre Mosè Zerai . «Quella costa è un girone infernale di abusi e terrore»

Alessandro Beltrami martedì 16 giugno 2015
«Sono concentrati in numeri altissimi nei centri di detenzione. Le condizioni igienico sanitarie sono disumane. Se vuoi uscire devi pagare. E se non paghi subito, viene picchiato ». Padre Mosè Zerai è un sacerdote eritreo, presidente dell’Agenzia Habeshia. Da anni aiuta i profughi provenienti dal Corno d’Africa che cercano di attraversare il Mediterraneo. Tutti hanno il suo numero di cellulare. «Raccontano di bastonate quando va bene. Ma spesso diventa un sadico divertimento. I miliziani alla sera arrivano e tirano fuori qualcuno a piacimento. Le donne vengono abusate. Nelle stesse stanze di queste palazzine, resti del passato regime, ci sono bambini terrorizzati». Si parla di 500mila persone sulle coste libiche. Cosa dobbiamo attenderci? In questo momento, devo dire, non mi risulta che ci sia tutta questa gente pronta a partire. Sul futuro dipende da cosa succederà in Libia. Se la situazione si stabilizzerà molti si fermeranno lì: il lavoro non manca, mancano invece la pace e la stabilità. Certo l’avanzamento di gruppi estremisti filo-Is aumenta la paura. Qual è la presenza e il ruolo dell’Is? Lo Stato islamico non ha interessi diretti nel traffico di esseri umani. Ci sono, piuttosto, gruppi vicini a loro che taglieggiano lungo il percorso, trattengono le persone, si fanno pagare il passaggio. Così come non ci sono infiltrati sui barconi: non hanno bisogno di questi mezzi per venire in Europa. In molti hanno passaporti occidentali, possono entrare quando vogliono. Ha aggiornamenti sugli 86 eritrei rapiti in Libia dall’Is una decina di giorni fa? Le notizie sono molto confuse. Sappiamo che diversi ragazzi sono fuggiti saltando dai camion in corsa. Ci sono state sparatorie ma non conosciamo se ci sono feriti. Certamente le donne e i bambini sono nelle loro mani. Gli sbarchi in Grecia sono aumentati in modo drastico. È perché attraverso i Balcani l’accesso all’Europa è più facile? No, sono i trafficanti ha decidere se e come spostare i flussi. I migranti accettano di viaggiare verso la direzione che viene loro indicata. Non hanno reale possibilità di scelta. Quanti tra i profughi vogliono restare in Italia? Tra eritrei ed etiopi, quelli che per loro volontà rimangono in Italia sono una percentuale minima. Tutti gli altri vogliono andare a Nord: soprattutto Danimarca e Scandinavia. Sia perché lì trovano un tipo di accoglienza che consente loro di ripartire con una vita dignitosa, sia perché hanno già dei familiari. Londra è una meta ambita ma è molto complicato raggiungerla. I più si arenano a Calais o a Parigi. I profughi in attesa di imbarcarsi sono al corrente del regolamento di Dublino e che le frontiere con l’Europa sono chiuse? Lo sanno perfettamente. Si telefonano, si informano reciprocamente. Sono aggiornati. Ma sanno anche che non c’è altra via. L’Italia è un Paese di transito. Arrivano sperando di continuare il viaggio. A quali rischi va incontro chi resta bloccato al di qua delle frontiere? La mancanza di vie legali di accesso agli altri Paesi europei li espone a sfruttamento e abusi. Lavoro nero, criminalità. Per continuare il viaggio hanno bisogno di soldi, anche perché i passeur chiedono sempre di più. Ma gli abusi possono arrivare anche da chi dovrebbe tutelare. La scorsa settimana i volontari di Asgi e Antigone hanno incontrato a Regina Coeli alcuni minori provenienti dalla Somalia che intendevano richiedere protezione in Francia. Erano stati trattenuti – in un momento di grande confusione ndr. – per essere identificati e per accertare la loro età. Un fatto al di fuori di ogni quadro di diritto. Grazie all’intervento delle associazioni sono stati spostati in un’altra struttura.