Il ricordo di Lady D. Quel silenzio assordante
Il giorno del funerale piangevano tutti, in un silenzio assordante. Tutti tranne la regina, che si premeva un fazzoletto contro la bocca. E i due figli, Harry e William: Londra si inchinava per salutare la sua principessa triste e loro, timidi e trasparenti, potevano solo guardarsi la punta delle scarpe. Due macchie chiare dietro una bara leggera, con la gola strozzata dalle cravatte nere, ordinati come soldatini di ferro. Se domani, 31 agosto 2017, Lady Diana Spencer fosse ancora viva, avrebbe 56 anni.
Sarebbe mamma di due uomini adulti e nonna di due bambini. Vent’anni fa a domani, invece, la tragedia mai del tutto chiarita della sua morte violenta ha reso per sempre indimenticabile quel tunnel di Parigi schiantato dalle luci dell’ambulanza, l’automobile spaventosamente accartocciata, lo scialle bianco abbandonato tra i rottami, ultimo ricordo della Rosa d’Inghilterra. Alla fine di una vita inquieta e totalmente pubblica, una morte clamorosa e universale, come una volta toccava in sorte agli eroi, e oggi solo ai divi. Diana Spencer lasciava questa terra riuscendo nell’impresa di diventare leggenda, regina di cuori senza corona, donna imperfetta e imperfettamente amata. Quanti sorrisi, quante lacrime, quanta timidezza e quanto coraggio, quanti amori e opere umanitarie: aristocratica e ingenua ragazza dalla sguardo intimidito, sposa da fiaba dal volto adolescente, futura regina dai gesti incerti.
E poi moglie smagrita, sprezzata e tradita, sposa adultera dallo sguardo duro, donna sottomessa alla corte e infine capace di spezzarne l’ipocrisia. Diana non può essere considerata un esempio: morì abbracciata al suo amante, in un’auto blindata guidata da un autista ubriaco, mentre sfuggiva ai flash della popolarità romanzesca che il destino le aveva riservato. E che in parte si era scelta. Il gossip ha violentato il suo ricordo, ma l’amore del popolo l’ha trasformata nell’icona sfortunata della principessa triste, compianta dalla gente comune che conosceva ogni cosa di lei attraverso giornali e tv: dal sorriso amaro agli abiti di Versace, dall’impegno sociale alla ribellione, dalla lievità alla solitudine.
Il ricordo più forte di quei giorni obesi di fiori e candele al vento è il silenzio livido di una città impietrita. L’addio a Lady D aveva staccato la corrente, cancellato il volume, come in un immenso acquario listato a lutto. Londra si aprì per lasciarla passare, regalandole solo applausi sinceri. Quelli, alla fine, tornò a concederli anche a Elisabetta, la regina che si accorse in ritardo che doveva mostrarsi addolorata al suo popolo per non perderlo. E che, davanti ai cancelli di Buckingham Palace aspettava, insieme alla sua limousine, la nuora distesa sopra al cannone. Quel silenzio era il rammarico del mondo, certo di aver perso per sempre una donna preziosa.
E questo rompeva i timpani, più delle immagini, più delle note strepitose di Elton John, brivido puro, il pianoforte suonato in chiesa come una nave che entrava nelle vene. E più di quel corteo scarno di guardie a piedi e a cavallo che si animava e cresceva avanzando verso l’Abbazia di Westminster. Diana era sola, senza Carlo che si unì alla fermata successiva. E senza i figli, tenuti in disparte a lungo da un cerimoniale di piombo. Nessuno più di lei ha creato guai e imbarazzi a Elisabetta. Ma paradossalmente nessuno più di lei ha aiutato la monarchia inglese a rafforzarsi, spazzando l’alterigia e i rituali polverosi di un’istituzione che aveva perso il contatto con la realtà.
Sei giorni dopo la sua morte, la cattolica “Messa da Requiem” invase il tempio degli anglicani, perchè – si disse – piaceva a Diana. Il laburista Tony Blair lesse San Paolo, Westminster pregò per i figli della corona. Londra fuori aspettava solo lei, una Rolls Royce nera se la portò via. La principessa era ancora sola, coperta dai gigli, bianchi come la sua pelle, che il serpente umano della folla le gettava tra le strade di Hyde Park. Stravolto di dolore, umido di rimpianto.