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Medio Oriente. Perché l'Egitto tace sulla guerra e sui negoziati

Federica Zoja mercoledì 2 ottobre 2024

Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi (a sinistra) con il collega turco Recep Tayyip Erdogan al Cairo

Washington fornirà al Cairo un miliardo e 300 milioni di dollari in assistenza militare senza nessuna contropartita. Il presidente statunitense Joe Biden ha comunicato al Congresso che, a differenza del passato, il sostegno finanziario all’alleato nordafricano non sarà soggetto a richieste da soddisfare, men che meno un avanzamento sul cammino delle libertà fondamentali. “Questioni di sicurezza nazionale”, ha spiegato alla stampa un portavoce della Casa Bianca, ripreso anche dai media arabi. Il ragionamento è semplice e pragmatico: la situazione in Medio Oriente è così incandescente che non è il momento di andare per il sottile. Chi può, per ragioni geografiche, storiche e politiche, deve essere messo in condizioni di avere un ruolo attivo e convincente.

L’Egitto, più di tutti gli altri interlocutori regionali, è considerato credibile, ma ha uno scheletro economico-sociale a rischio sgretolamento: la crisi israelo-palestinese e ora la riapertura del fronte libanese, oltre al conflitto sudanese, potrebbero dargli la spallata finale, con un effetto tsunami. Ecco perché Il Cairo non ha mai alzato i toni nei confronti di Israele oltre la consueta retorica araba, che manifesta sostegno alle popolazioni e promette aiuti: la sicurezza nazionale rimane prioritaria. La presidenza di Abdel Fattah al-Sisi ha scelto di continuare a far sedere al proprio tavolo da gioco tutti: nell’ultimo anno ha spinto senza sosta sull’acceleratore del multilateralismo intrapreso nel 2014, cercando di non dispiacere a nessuno. Di seguito alcuni passaggi particolarmente significativi per interpretare il presente. Da gennaio di quest’anno, l’Egitto è entrato ufficialmente nel gruppo dei Paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), così come Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Iran. E si prepara a partecipare per la prima volta da membro a tutti gli effetti al summit di ottobre (a Kazan, capitale del Tatarstan, ex repubblica sovietica, dal 22 al 24), punto di riferimento del Sud globale. Anche in vista di quell’appuntamento, ma non solo, il ministro degli Esteri Badr Abdellatty si è da poco recato in visita ufficiale a Mosca, sulla scia di una crescente cooperazione commerciale e industriale che rende i due Paesi interdipendenti. Non sfugga la telefonata di congratulazioni, enfatizzata dalla stampa egiziana, fra al-Sisi e Vladimir Putin all’indomani della rielezione di quest’ultimo, in aprile. Da parte russa, pochi giorni fa il titolare degli Esteri Sergey Lavrov non ha mancato di definire “costruttiva ed equilibrata la posizione egiziana sull’Ucraina”, elogiando anche l’intermediazione fra Israele e Palestina. Gli sforzi egiziani sono altrettanto vigorosi più a Est, in estremo Oriente: a fine maggio, in occasione del Forum Cina-Paesi arabi, a Pechino, Egitto e Repubblica popolare hanno rilanciato un piano di investimenti in ambito energetico, infrastrutturale e dei trasporti. Nessuna fonte ufficiale ha smentito le voci di trattative in corso per la fornitura, da parte cinese, di aerei da combattimento J20 al Cairo. Gli esperti cinesi sono stati interpellati anche per una collaborazione in campo idrico e sono attesi alla Settimana dell’acqua, a ottobre. Ma è con Ankara che al-Sisi in persona sta lavorando per una stabilizzazione del dialogo: il gelo, fra i due attori protagonisti del mondo arabo sunnita, era calato a seguito della destituzione violenta del presidente eletto Mohammed Morsi (islamista, membro di spicco della Fratellanza musulmana egiziana) nel luglio 2013 e la successiva repressione, da parte del direttorio guidato proprio dal feldmaresciallo Abdel Fattah al-Sisi, nei confronti dei suoi sostenitori. Un affronto per Ankara e Doha, supporter storici dell’islam politico in tutte le sue forme. Dal 2021 in poi, passo dopo passo, i fili diplomatici sono stati riallacciati, fino alla visita di Erdogan al Cairo a febbraio e a quella di al-Sisi ad Ankara il 5 settembre scorso. I due Paesi, si legge nella dichiarazione congiunta di fine incontro, intendono triplicare il volume del proprio interscambio commerciale, puntando a 15 miliardi di dollari: la cooperazione energetica sarà il fulcro del nuovo asse. Politicamente, i due leader sembrano aver optato, forse nella consapevolezza che in due è meglio che da soli, per toni -per lo più conciliatori- comuni su Gaza, Libano, Libia, Sudan e Somalia. Quanto alla sponda europea, a parlare sono i fatti: in primavera, Unione ed Egitto hanno siglato quello che è stato definito l’accordo quadro più sostanzioso della loro storia bilaterale, per un valore di 7,4 miliardi di euro fra prestiti, crediti e sovvenzioni. Il primo miliardo è stato erogato in giugno per affrontare le conseguenze delle due emergenze più prossime: in Medio Oriente e in Sudan (a fine agosto 2024, i rifugiati sudanesi in Egitto erano quasi 470mila, dato Unhcr). Sei le aree di interesse condivise, fra cui spicca il pilastro ‘migrazione e mobilità’. D’altronde, con chi elaborare una strategia d’insieme se non con il gigante demografico nordafricano? Con circa 107 milioni di cittadini (dati del Capmas, Centro statistiche demografia e mobilità) e una crescita economica che non riesce a tenere il passo con l’incremento di popolazione, l’Egitto è il grande osservato regionale. Dalle sue sponde si parte per un altrove migliore, anche in termini di rispetto dei diritti umani. Allo stesso tempo, le sue megalopoli accolgono milioni di migranti: se ne stimano almeno 9, fra legali e illegali. Uno scenario sociale in cui svalutazione spinta della valuta locale e cancellazione del regime di prezzi calmierati sui beni di prima necessità -condizioni imposte dal Fondo monetario internazionale per sbloccare i propri prestiti- potrebbero avere conseguenze esplosive, anche a migliaia di chilometri di distanza.