Un gesto di violenza, orribile, palestinese. Israele fa volare i caccia, che colpiscono Gaza. Le brigate terroristiche che fiancheggiano Hamas cominciano a lanciare razzi sulle città israeliane e minacciano ulteriori attentati. Il premier di Israele allora richiama i riservisti e prepara la spedizione via terra. Nel frattempo, muoiono donne e bambini palestinesi: vittime perché scudi umani sacrificati dai loro, come dicono i portavoce del governo e dell’esercito di Israele, o vittime perché quando bombardi una casa bombardi anche chi ci vive? Poco importa, perché alla fine nessuno andrà a controllare e la verità diventa quella di chi grida più forte. Questo è quanto succede in queste ore ma è anche quanto è successo, con maggiore o minore intensità, in media due volte l’anno dal 2000 a oggi. Secondo B’tselem, l’organizzazione umanitaria e pacifista israeliana attiva in Israele dal 1989, tra il 2000 e il 2010 gli israeliani hanno ucciso 6.404 palestinesi e i palestinesi 1.080 israeliani, senza che questo cumulo di morti abbia cambiato di un millimetro la sostanza del problema o avvicinato una delle parti a una qualunque forma di vittoria. Questi precedenti, tale insopprimibile coazione a perpetuare l’uso delle armi qualunque sia il problema e qualunque siano le circostanze, dimostra che ciò che ora stanno facendo il premier Benjamin Netanyahu e i dirigenti di Hamas non ha nulla a che fare con la morte di Eyal, Gilad e Naftali, i tre studenti israeliani assassinati nei pressi di Hebron, né con quella di Mohammed, il ragazzo palestinese bruciato vivo a Gerusalemme. Anche perché dalla tragedia collettiva erano comunque emersi segnali del fatto che un altro modo, anzi, un altro mondo, era ed è possibile. Rachele Frenkel, mamma di Naftali, che aveva commosso tutti raccontando dalla tribuna dell’Onu il dramma suo e delle altre madri israeliane, aveva avuto un colloquio con i parenti di Mohammed, mostrando con la carne, il sangue e i sentimenti delle famiglie come la violenza distrugga il futuro e, alla fine, lasci solo essere umani sconfitti. Era un’occasione preziosa, da non perdere. Soprattutto per due popoli che la storia ha condannato a convivere. Soprattutto dopo un rapimento, quello dei ragazzi israeliani a Hebron, che con ogni evidenza era la risposta “a orologeria” a una serie di eventi che, in ogni caso, avevano rimesso in movimento una situazione stagnante e una trattativa di pace ridotta a farsa: la visita di papa Francesco in Terra Santa, la preghiera di Shimon Peres e Abu Mazen in Vaticano, l’ipotesi di un governo unitario al Fatah-Hamas in Palestina. Eyal, Gilad, Naftali e Mohammed sono stati massacrati da chi voleva mandare all’aria qualunque prospettiva positiva. Da chi voleva che succedesse proprio ciò che sta succedendo: altri morti, altri rancori, altri muri. La politica mediorientale, ancora una volta, non è stata all’altezza della sfida e, per mere questioni di potere, ha rifiutato di leggere i segni dei tempi. Quelli che invece la signora Frenkel, nel suo dolore materno, aveva ben chiari agli occhi. Perché in certi casi ci vuol più coraggio a fare una telefonata che a muovere un esercito.