L'analisi. Qatar, il crescente e complesso ruolo di chi vuole essere fulcro regionale
L'emiro del Qatar, lo sceicco Tamim bin Hamad al-Thani
«Il Qatar finanzia Hamas» è stato un punto fermo delle analisi di politica internazionale fin dalle prime ore dopo l’attacco del 7 ottobre. Il Qatar è un attore chiave dell’accordo per l’evacuazione degli stranieri e di alcuni feriti gravi dalla Striscia in queste ore, insieme a Israele, Egitto, Stati Uniti e, ovviamente, al movimento fondamentalista.
Non si può neppure escludere che da Doha passi anche un futuro negoziato. Come si conciliano questi dati di fatto apparentemente così contrastanti? Gli elementi elencati, in realtà, sono tutti veri, quello che potrebbe non quadrare è il non detto, sotteso alle singole questioni.
L’ambasciatore qatariota negli Usa ha provato a chiarire alcuni punti nei giorni scorsi. Doha versa sì alcune centinaia di milioni di dollari l’anno per la popolazione di Gaza, ma lo ha fatto per motivi umanitari e con il consenso di Tel Aviv e di Washington.
Meshal bin Hamad Al Thani ha scritto in una nota pubblicata dal “Wall Street Journal” che «l’ufficio politico di Hamas in Qatar è stato aperto nel 2012 dopo una richiesta americana di stabilire linee di comunicazione indirette con Hamas. L’ufficio è stato spesso utilizzato negli sforzi di mediazione, aiutando a ridurre i conflitti in Israele e nei territori palestinesi. La presenza di un ufficio di Hamas non deve essere confusa con un’approvazione».
La dichiarazione non ha ricevuto precisazioni da parte della Casa Bianca. Non solo. Israele ha ufficialmente riconosciuto il ruolo di mediatore di Doha per gli ostaggi già rimessi in libertà, definendo «cruciali i suoi sforzi diplomatici». Non a caso le relazioni tra la monarchia e Tel Aviv sono state allacciate nel 1996, ben prima degli accordi di Abramo siglati grazie all’Amministrazione Trump.
Ma perché il piccolo e straordinariamente ricco Emirato sembra giocare un ruolo ambiguo o doppio? Le ragioni sono molteplici e non necessariamente coerenti ai nostri occhi.
La dinastia degli Al Thani al potere è storicamente vicina al movimento dei Fratelli Musulmani e appoggia una lettura integralista dell’islam, che si riverbera nelle contraddizioni della sua società, aperta all’Occidente per alcuni versi (ospita la più grande base americana della regione) ma continua a non rispettare molti dei diritti fondamentali delle società liberal-democratiche, come è emerso, per esempio, dal trattamento dei lavoratori stranieri impegnati nelle opere dei recenti Mondiali di calcio.
Forte delle enormi riserve di gas (soprattutto) e di petrolio, Doha ha fatto shopping di aziende, pacchetti azionari, fondi immobiliari e società sportive famose come il Psg di Messi e Neymar in Europa (Italia compresa) e Stati Uniti. Ma l’ambizione del Qatar è anche di assumere una posizione chiave dal punto di vista politico e strategico, a dispetto delle sue dimensioni.
Ecco allora il tentativo di sostenere i rivoltosi delle primavere arabe all’inizio dello scorso decennio, che portò a forti tensioni con i Paesi vicini, sopite a fatica in seguito. Ed ecco anche i legami con i taleban, che poi condussero alle trattative per il ritiro Usa dall’Afghanistan.
Le relazioni con Hamas di che natura sono, allora? C’è una vicinanza ideologica - non è stato condannato l’eccidio del mese scorso - e c’è la volontà di avere parte nei delicati equilibri del Medio Oriente. Doha non punta a un’escalation del terrorismo, anche se probabilmente non ama Israele. Vede però nelle crisi occasioni per aumentare il proprio rilievo e mantenersi in una posizione di difficile equilibrismo.
Non sa che i suoi fondi per i palestinesi finiscono anche ai vertici militari di Hamas? Non fa pressioni sui leader del Movimento che ospita nei suoi hotel? Forse sì, forse no. Ma questi sono gli interlocutori. A volte meglio averne uno che nessuno.