N ella prima conferenza stampa dopo la sua elezione, il 9 maggio, alla presidenza filippina (entrerà in carica il 30 giugno), ieri Rodrigo Duterte ha ribadito i principali punti delle suo progetto di governo, confermando una svolta che gli avversari politici ma anche la società civile temono avvii una deriva dittatoriale. Confermati l’obiettivo di modificare la Costituzione per consentire entro sei mesi dal giuramento il ritorno nel Paese della pena di morte, ma anche l’intransigenza verso la criminalità comune, che non solo sarà duramente perseguita ma che sarà affrontata a armi spianate: la polizia sarà autorizzata a «sparare a vista». Duterte aveva già indicato che a rischio «di finire in pasto ai pesci nella baia di Manila» sono 100mila delinquenti a cui impedirà di «distruggere la nazione». Sul piano politico, ribadita la volontà di decentralizzare i poteri secondo le necessità di un arcipelago di oltre 7.000 isole e di pacificarlo cercando la fine della guerriglia comunista il cui riferimento politico, José Maria Sison, è da ormai vent’anni in esilio in Olanda. Sul piano internazionale, nessuna rottura con il tradizionale alleato americano, con cui Manila negli ultimi tempi ha stretto i rapporti militari, ma mano tesa a Pechino per rilassare i rapporti resi tesi dalle pretese territoriali cinesi su mari circostanti l’arcipelago, e come parte delle iniziative per incentivare investimenti utili a alimentare l’attuale slancio economico e l’occupazione. Dopo avere ancora pochi giorni fa segnalato l’intenzione di un viaggio a Roma anche per chiedere perdono per le frasi ingiuriose rivolte al Papa in occasione della sua visita nel Paese, ieri Duterte ha smentito seccamente la possibilità di una richiesta diretta di scuse dopo la lettera inviata a gennaio.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Il presidente Rodrigo Duterte
(Epa)