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L'INTERVISTA. «Protezione e istruzione: così si difendono le donne»

Luca Geronico sabato 28 novembre 2020

Alganesh Fessaha (al centro) mentre visita un campo profughi in Etiopia

«Nel Sinai, la situazione più orribile: le donne erano in mano ai beduini che ne abusavano da due a cinque volte al giorno. Quando le liberavo erano perse, non si fidavano neanche di me: la paura, un mostro che si ripresentava anche dopo quattro o cinque anni. Bastava un rumore nella notte per far ricordare le catene, le frustate, i sacchetti di plastica bruciati fatti colare sulla schiena. E poi ragazze madri che rifiutavano i figli. In Etiopia, fra le donne fuggite dall’Eritrea, alcune avevano subito violenza, oppure erano scappate con i figli sulla schiena, gli occhi sbarrati per giorni. E alcune delle violentate avevano contratto l’Hiv; altre, dopo le violenze, perdevano la cognizione del tempo e dello spazio, oppure compivano atti di autolesionismo. In Benin e Costa d’Avorio, invece, abbiamo un centro specifico per le donne maltrattate: queste riuscivano a rimettersi in piede per sostenere i loro figli. E poi le donne arrivate attraverso la Libia, sfruttate e costrette alla prostituzione: vogliono uscire da questa schiavitù, ma hanno paura di essere uccise. Ci vorrebbe Dante per scrivere un girone infernale sulla disperazione femminile». Alganesh Fessaha, medico italoeritrea, Ambrogino d’oro nel 2013 a cui è stato dedicato un albero nel Giardino dei giusti di Milano, Ufficiale della Repubblica e presidente di Gandhi Charity, 12 anni fa inventò i primi corridoi umanitari dal Sinai alla Somalia, fa passare davanti agli occhi tutta la sofferenza incontrata. Da donna a donna.

La pandemia ha esasperato le vulnerabilità al femminile. Come insegnare alle donne a difendersi da questo mare di violenza?

Le donne devono imparare a parlare, a denunciare rompendo l’omertà. In Italia ci dovrebbero essere dei centri di ascolto sempre aperti e in grado di attivare subito una rete di protezione. E all’estero, anche nei Paesi poveri, ci deve essere una educazione fra le donne perché non accettino questi abusi: la paura è di non essere ascoltate. Si devono dare delle garanzie: centri di ascolto e di accoglienza dappertutto, se no è inutile parlarne.

Nei suoi progetti con Ghandi Charity ha potuto constatare gli effetti della pandemia sulle donne?

Li abbiamo visti in una certa fascia di emigrati. Prima della pandemia le donne lavoravano ma con il lockdown, vivendo assieme agli uomini disoccupati 24 ore al giorno, le violenze sono aumentate. Prima, solo se vi erano episodi molto gravi qualche parente veniva a denunciare la situazione. La soluzione? Se ci sono dei figli piccoli è molto difficile intervenire e si fanno pressioni morali sul marito: ma questo serve per una settimana al massimo...

Alganesh Fessaha, nel 2008 lei ha inventato i corridoi umanitari. Ora, con la pandemia in corso, quale potrebbe essere un «corridoio umanitario al femminile» per mettere la questione di genere al primo posto?

Per prima cosa bisogna inserire le donne nella società in modo dignitoso. Poi, come dicevo, creare una protezione reale ed è fondamentale che ci sia una istruzione capillare: la donna deve essere parte attiva della società e deve avere autostima. Come Ong Gandhi Charity abbiamo dato la priorità alle donne perché sono quelle che hanno sofferto di più. Un sufi turco diceva: dovunque nel mondo si versi la lacrima di una donna, quel Paese non progredirà mai. Luca Geronico © RIPRODUZIONE RISERVATA La dottoressa italo-eritrea Alganesh Fessaha è da sempre a fianco delle più deboli: «È un girone infernale la disperazione al femminile. La paura, per chi subisce violenza, è di non essere ascoltata. Si devono dare delle garanzie con centri di accoglienza ovunque»