Tekle, lo chiameremo così, ha 25 anni ed è in fuga dalla dittatura di Isaias Afeworki. In fuga da un Paese, l’Eritrea, dove il servizio militare inizia a 17 anni e i ragazzi trascorrono buona parte della propria vita imbracciando un fucile. Tekle sognava un destino diverso, una vita migliore: per questo ha disertato e ha raggiunto la Libia. Da qui si è imbarcato, nel luglio 2009 per raggiungere l’Italia. La barca su cui viaggiava, però, è stata intercettata dalle motovedette italiane e rimandata in Libia. «Dopo lunghe peripezie nelle carceri libiche, ora si trova ostaggio dei trafficanti del Sinai - denuncia don Mosé Zerai, direttore dell’agenzia Habeshia, che ha raccolto la testimonianza del ragazzo -. Nella fase di respingimento si trovava a bordo di un’imbarcazione con una trentina di persone: metà eritrei, metà somali». Ora i suoi aguzzini, i beduini Rahsaida che gestiscono il traffico di uomini nel deserto del Sinai, pretendono 8mila dollari per liberarlo. Ma Tekle non ha quei soldi, e non ha nessun parente che lo possa aiutare. Implora di essere liberato: «Siamo stanchi di tutti questi pestaggi». Del gruppo di 250 profughi che il 23 novembre scorso lanciò l’allarme dal deserto del Sinai, oggi, nelle mani dei predoni restano 27 persone, fra cui quattro donne. «Una di loro è incinta, al quinto mese di gravidanza - spiega don Mosè Zerai -. Sta molto male e rischia di perdere il bambino a causa degli abusi e dei maltrattamenti subiti dai predoni». Cresce intanto la preoccupazione per un gruppo di 38 eritrei (non 32, come si era detto inizialmente, ndr) che il 13 gennaio, aveva lanciato l’allarme. Vengono tenuti prigionieri da oltre un mese a El Gorah, nel Nordest del Sinai, nei pressi del confine tra Israele e la Striscia di Gaza. «Vengono picchiati duramente due volte al giorno e molti hanno iniziato a pagare il riscatto di 10mila dollari pretesi dai trafficanti - racconta don Mosé -. Ma fra di loro ci sono undici persone, tra cui una donna e un ragazzo orfano che non hanno i soldi e che non possono pagare». Il gruppo, composto inizialmente da una sessantina di persone, era partito dal Sudan. Qui i giovani eritrei erano entrati in contatto con un beduino Rashaida che, spalleggiato da un mediatore eritreo, aveva avviato una vera e propria campagna promozionale nel Paese: «Vi porterò in Israele - prometteva - conosco a perfezione le strade. Nessuno di quelli che viaggia con me è mai stato preso». Prezzo concordato per il viaggio, 3mila euro. Invece, arrivati nel deserto del Sinai, i profughi sono stati rinchiusi in un container sotterraneo e il gruppo diviso. «Il trafficante se n’è andato in Sudan consegnandoci nelle mani di un suo parente residente nel Sinai - ha raccontato a don Mosé uno dei 38 eritrei- il quale a sua volta ci ha venduti a un altro gruppo che ci tiene prigionieri». «Sono incatenati mani e piedi, hanno poco cibo e poca acqua - spiega il sacerdote - Vengono picchiati due volte al giorno e ci sono due persone addette a questo compito: uno di loro agisce sotto effetto di stupefacenti». Continua anche l’impegno delle altre associazioni impegnate per la liberazione dei profughi prigionieri nel Sinai. L’Egitto, secondo quanto riferito dagli attivisti del Gruppo EveryOne, si sta preparando a intervenire contro i trafficanti di uomini e di armi attivi nel deserto del Sinai mettendo in campo un’unità speciale anti-terrorismo. «Il governo egiziano sta costituendo un corpo speciale - spiega Roberto Malini, co-presidente di EveryOne - L’unità si avvale di carri armati, elicotteri e artiglieria pesante: segno che il governo egiziano ha raggiunto un accordo con Israele per una deroga agli accordi di camp David, che imponevano alle forze di sicurezza egiziane al confine l’uso di armi leggere». Solo l’uso di armi pesanti, infatti, può consentire alle autorità di polizia di intervenire in maniera efficace contro le bande di beduini che controllano questa regione del Sinai dove sono le bande di trafficanti di uomini e armi a dettar legge.