In Libia economia vuol dire petrolio. I calcoli del Fondo monetario internazionale dicono che l’attività di estrazione, trasporto e vendita di greggio e gas naturale vale il 92% del prodotto interno lordo libico. Alla fine dello scontro in corso nel Paese, che con 46,4 miliardi di barili di oro nero e 55mila miliardi di metri cubi di gas naturale ha le riserve di idrocarburi più vaste dell’Africa, chi avrà preso il controllo dei giacimenti e dei terminal dove il greggio viene caricato sulle petroliere delle multinazionali avrà l’economia libica nelle proprie mani.L’80% del petrolio libico si trova nei dintorni del Bacino di Sirte, un’area di 230mila metri quadrati che dal Golfo di Sirte scende a Sud fino al deserto. È lì che nel 1961 i britannici della British Petroleum assieme ai texani della Bunker Hunt hanno scoperto il giacimento Sarir, con 12 miliardi di barili il più grande dell’intera Africa. Ed è in quell’area che nei decenni successivi si è concentrata con più determinazione l’attività delle multinazionali del petrolio, sempre a braccetto con la National Oil Company, la compagnia petrolifera statale che gestisce le concessioni, partecipa all’attività di estrazione, prende una parte dei profitti. Nel bacino di Sirte sono stati individuati 23 "grandi giacimenti" e sedici "giacimenti giganti" dai quali arrivano più o meno due terzi degli 1,6 milioni di barili che la Libia esporta ogni giorno. L’altro terzo proviene dall’ovest, dove vi sono il bacino del Murzuq, quello del Ghadamis e quello subacqueo al largo di Tripoli. Gli oleodotti (molti realizzate da aziende italiane) portano il petrolio dei giacimenti dell’ovest fino al porto di Zawia, dove fino a gennaio si caricavano sulle navi dirette in Europa 200mila barili al giorno. Il petrolio dell’est ha invece cinque terminal di riferimento, dai quali complessivamente passava circa un milione di barili al giorno all’inizio dell’anno.«Penso ci siano buone possibilità che la crisi si risolva con la divisione della Libia in due parti, perché anche a livello di popolazione l’impressione è che la Tripolitania sia rimasta con il rais, mentre la Cirenaica è compatta con i ribelli», dice Arturo Varvelli, ricercatore dell’Ispi esperto delle relazioni italo-libiche. In una Libia divisa ci sarà da spartire tra i ribelli e Gheddafi anche il petrolio. «Se la situazione fosse congelata alle condizioni attuali – continua Varvelli –, Gheddafi ne uscirebbe meglio degli avversari: al momento ha il controllo dei giacimenti dell’Ovest, di gran parte di quelli dell’Est, di tre dei quattro terminal principali. Ai ribelli restano Zueitina e Tobruk». Quando il Paese troverà un nuovo ordine, le compagnie petrolifere che hanno ottenuto concessioni dal governo del rais si troveranno a doversi confrontare con nuovi interlocutori. Anche l’italiana Eni, che con Tripoli aveva da anni un rapporto privilegiato.«Per le industrie del petrolio non sarà una rivoluzione improvvisa – avverte il ricercatore –, i contratti petroliferi, che durano decenni, non si annullano da un giorno all’altro. Anche quando è arrivato Gheddafi le concessioni non sono state rimesse in gioco. L’ipotesi di chi dice "adesso i ribelli ci cacciano" è surreale». La stessa macchina petrolifera di una nazione non si presta a stravolgimenti improvvisi, perché gestirla richiede esperienza e competenze che pochi hanno, tanto più in una nazione come la Libia, dove la classe dirigente è davvero ridottissima.Molto dipenderà, ad esempio, dalla fazione di appartenenza che sceglierà Choukri Ghanem, il presidente della Noc, l’uomo che mantiene il controllo operativo del petrolio libico. Però è ovvio che tra le nazioni della coalizione chi si sarà dimostrato "più amico" di Gheddafi o dei rivoltosi potrà raccogliere i frutti delle sue scelte. «I vecchi contratti resteranno, è sempre successo così – prevede Varvelli –. Ma le concessioni sulle aree ancora inesplorate potranno essere accordate sulla base delle nuove simpatie. E le stime dicono che in Libica c’è ancora molto petrolio che ancora non è stato scoperto».Se si guarda al conflitto libico attraverso le lenti della guerra per il petrolio, allora anche l’interventismo del Regno Unito e della Francia ha un aspetto meno solidale e motivazioni più comprensibili, così come si spiegano la maggior cautela dell’Italia e tutte le perplessità della Germania (che con Wintershall è il secondo produttore di greggio nella terra di Gheddafi). Parigi non ha certo un ruolo da protagonista nell’industria petrolifera libica. Londra nemmeno («e non dimentichiamoci – fa presente Varvelli – che, tra le carte pubblicate da Wikileaks, una rivelava che gli inglesi nel 2009 avevano concesso a Gheddafi la liberazione dell’attentatore di Lockerbie per evitare problemi alle attività in Libia di British Petroleum»). Chi non ha nulla da guadagnarci (in termini petroliferi) è l’Italia, che in Libia aveva trovato il suo miglior fornitore di petrolio e alla fine dei giochi rischia di ritrovarsi con un Gheddafi «screditato a livello internazionale e pieno di odio contro di noi» da una parte e dall’altra una Cirenaica «storicamente terra dell’anticolonialismo libico, con una popolazione che ancora ci detesta».