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Afghanistan. Per scappare dalla prigione le donne si inventano «imprenditrici»

Lucia Capuzzi, inviata a Kabul domenica 2 luglio 2023

Mezzogiorno al parco di Zar Negar. Al cancello principale, la guardia taleban ripete annoiata la frase: «Non qui, dall’altra parte». Una dopo l’altra, le ragazze fanno il giro del giardino situato nel centro di Kabul. All’entrata laterale è stato allestito un controllo di sicurezza femminile. Dietro un telo montato per l’occasione, una giovane avvolta in un lungo hijab nero rivolge un’occhiata distratta alle borse aperte. «Passate, passate», sorride alle nuove arrivate che le lanciano uno sguardo di intesa. È un momento di festa per tutte. Sette mesi fa, un’ordinanza dell’Emirato ha escluso le donne dai parchi pubblici e dai lunapark. Ora, però, sono riammesse. Almeno nei giorni della fiera. Appena oltrepassato il checkpoint, ci si inoltra nella selva di bancarelle. Quella dei “bolani” (spianata salata tipica) è la più affollata. Le mani della venditrice si muovono vorticosamente per soddisfare le richieste. Appena dopo ci sono i banchi dei gioielli e dei vestiti, poi quelli della frutta secca e dei profumi.

Tutto quanto sono in grado di realizzare i piccoli produttori locali. E le produttrici, sempre più numerose da quando gli ex studenti coranici sono tornati al potere. Uno dei tanti effetti paradossali delle restrizioni dell’Emirato. Quest’ultimo le ha espulse dalla pubblica amministrazione e dalle organizzazioni internazionali. Invece di rassegnarsi a restare a casa, però, le afghane hanno fatto ricorso a un extra di immaginazione per inventarsi un impiego e racimolare uno stipendio, in un Paese al tracollo economico dopo l’interruzione degli aiuti internazionali. Mettere su una micro-impresa è tra i pochi sbocchi professionali consentiti. A condizione di non avere rapporti diretti con il pubblico maschile. Per ogni regola, incluse le più assurde, però, il governo taleban – spaccato tra ultra-radicali e pragmatici – prevede un’eccezione.

L’enorme peso della crisi economica sugli abitanti

25% la quota di impieghi femminili perduti dalll’inizio dell’Emirato

34 milioni le persone che vivono in povertà, quasi il 90 per cento della popolazione

67% la quota di popolazione che ha necessità di assistenza umanitaria

Le fiere, appunto. Non tutte, s’intende. Ma buona parte, secondo il delicato equilibrio di divieti e deroghe così difficile da decifrare che, alla fine, a fare la differenza è l’inclinazione del funzionario di turno.

Sofia, il nome è di fantasia per ragioni di sicurezza, sistema i ciondoli e gli orecchini di legno e pietre dure. «Li ho fatti io», dice con una punta di orgoglio. Due anni fa, con il ritiro degli occidentali, il marito ha perso l’impiego di traduttore e lei quello di domestica. «Abbiamo cercato e cercato, ma niente. Otto figli e nessun guadagno, è stato terribile. A me è sempre piaciuto ricamare e fare gioielli. Non pensavo potesse diventare una fonte di reddito reale». Poi, l’anno scorso, ha iniziato il corso base di imprenditoria, competenze trasversali e mentoring di Nove onlus, da oltre dieci anni in prima linea nel sostegno agli afghani. «Mi hanno fatto ritrovare la fiducia in me quando ormai avevo perso ogni speranza. Che futuro ci può essere per una lavoratrice ora in Afghanistan? Mi hanno aiutato a concentrarmi sul presente. E, così, sono riuscita a trasformare quest’attitudine in un lavoro», racconta. Con i due terzi della popolazione dipendente dall’assistenza umanitaria per sopravvivere, il principale ostacolo per le micro-imprenditrici è la scarsa capacità di acquisto. «Per questo le fiere sono fondamentali. Non posso permettermi di affittare un locale, produco a casa e vendo ai conoscenti. Solo nei giorni di esibizione riesco a raggiungere il pubblico e, di solito, finisco tutta la merce».

Da qui la battaglia per consentire alle donne di partecipare alle fiere. A condurla, la Camera di commercio femminile. Nata durante la Repubblica, in realtà aveva chiuso i battenti all’indomani del cambio di regime. «Abbiamo lottato e lottato per farla riaprire, abbiamo parlato con tutte le autorità taleban e, nella primavera 2022, li abbiamo convinti», spiega Rubina, nel direttivo dell’associazione che riunisce le 3.500 piccole produttrici afghane, almeno secondo i dati dell’esecutivo. Solo a Kabul sono 178: di queste, 140 sono state costituite durante l’Emirato. Qualche settimana fa, il ministro dell’Industria e del Commercio, Haji Nooruddin Azizi, capofila dell’ala pragmatica del movimento taleban, ha sottolineato che, nel corso del 2022, 641 produttrici hanno ricevuto la licenza, il 66 per cento in più dell’anno precedente.

Donne al lavoro in un laboratorio a Kandahar Sopra, la fiera al parco Zar Negar a Kabul - Ansa

Anche la ditta di Rubina, specializzata nella vendita di frutta secca e disidratata, è di nuova generazione. «Ho iniziato, in realtà, più di dieci anni fa con le marmellate. Facevo tutto io: raccoglievo la frutta, la cuocevo, preparavo i barattoli e li vendevo porta a porta. Al contempo, durante il precedente governo, lavoravo per promozione delle donne». Nell’agosto 2021, Rubina ha visto crollare i propri sogni. Poi, con il corso di Nove, dove ha conosciuto Sofia, «mi sono resa conto che potevo ancora combattere, aggrappandomi a ogni spiraglio». E l’ha fatto. Insieme alla Camera di commercio femminile, questa 41enne dagli occhi color miele ha negoziato con le autorità la creazione di un mercato per le donne a Jalalabad. «Un altro è in costruzione a Kabul. E hanno dato il via libera anche ai giardini femminili, con ristoranti e negozi riservati a noi. Certo, si tratta di spazi separati, ma almeno abbiamo una possibilità di lavorare».

Fatima indossa una vaporosa tunica candida mentre appoggia sul banco il vassoio di “qatlama”, versione afghana delle chiacchiere. «È la mia divisa da chef – scherza –. Non avrei mai pensato di diventarlo: mi occupavo di diritti femminili nella precedente amministrazione. Ora continuo a farlo ma in modo differente: nel mio forno ho dato impiego a 19 donne. Non guadagniamo tanto, ma almeno riusciamo a sopravvivere». Tanto, troppe, tuttavia, non riescono a farlo. Al tramonto, una folla di burqa azzurri attende con la mano tesa di fronte alle rivendite di pane di Kabul. La gran parte sa che tornerà a casa a mani vuote. «L’ho fatto anche io, tante volte. La cosa peggiore era vedere la delusione dei miei figli, quando rientravo senza nulla. Ne ho sei, il più piccolo ha 9 anni», racconta Kadria, nome da lei inventato sul momento per coprire la sua identità. Parla in fretta, vuole sbrigarsi, ogni minuto che passa il rischio aumenta.

L’espressione crucciata sul volto della 45enne non occulta la sua grazia femminile. Proprio la bellezza è diventata il suo dramma. A 14 anni, i genitori l’hanno costretta alle nozze con un over sessanta, previo pagamento di un lauto “prezzo della sposa”. Nel ventennio repubblicano, poi, un facoltoso signore della guerra s’è invaghito di lei e l’ha trasformata nella sua amante. «Quando mi ha lasciata, mi sono ritrovata senza nulla. Ho cominciato così, per sopravvivere». Kadria non pronuncia la parola-tabù, bandita perfino dalla lingua. Non, però, dalla realtà. Nemmeno da quella dell’Emirato dove la prostituzione è punita con la pena massima: morte per lapidazione. «All’inizio del nuovo regime ho smesso. Era troppo rischioso. Chi avrebbe badato ai miei figli se mi avessero ucciso? Meglio mendicare, mi sono detta. Ma i ragazzi avevano sempre fame. Ho preso a chiedere denaro in prestito, speravo di restituirlo, invece il debito è cresciuto e cresciuto. Così ho ripreso».

Non è l’unica. Secondo fonti ben informate, delle 10mila prostitute stimate durante la Repubblica, oltre la metà sarebbe tornata in attività a causa dell’emergenza economica. «Vivo nel terrore, ogni cliente può essere una spia. Cerco di accettare solo quelli conosciuti, ma non si sa mai. Non ho paura per me, non voglio lasciare soli i ragazzi. Ho scritto loro una lettera perché sappiano che ho cercato di fare del mio meglio per loro. Spero che loro possano avere delle altre scelte. Inshallah».