Strage di Dacca. I parenti delle vittime italiane: «Non uccidete i terroristi»
Nessuna consolazione, nessuna gioia di sapere che chi tre anni fa uccise a Dacca i propri cari è stato condannato alla pena di morte, perché rispondere «con la morte ad altra morte non è la soluzione». Certo «fa male ancor di più», dicono, sapere che in questi anni «non c’è stato alcun ravvedimento da parte degli imputati», come dimostra il grido «Allah akbar» dei condannati dopo la sentenza. «Sono tre anni e mezzo che aspetto questo giorno, pensavo avrei trovato un po’ di pace, invece sono tristissimo». Luciano Monti – che il primo luglio del 2016, alla Holey Artisan Bakery, perse la figlia incinta – parla di «ferite ancora aperte e sanguinanti», della «rabbia che fa vedere queste persone non pentite del loro gesto».
Ma è chiaro che «mentre ho dentro la testa il film di quello che è accaduto a mia figlia in quei minuti – continua – rimango nella certezza che la pena di morte non è mai una soluzione». L’odio e la vendetta sono idee già scartate tre anni fa anche dal figlio, oggi parroco di Santa Lucia di Serino in provincia di Avellino, don Luca Monti. Alla notizia della sentenza «mi sono fasciato nel silenzio in chiesa per cercare di capire meglio e nell’intimo del mio cuore ho provato ad ascoltare la parola di Dio». Da uomo è contento che «la giustizia abbia fatto il suo corso», ma sulla sentenza di morte «preferisce pregare» più che commentare. Il pensiero della sorella Simona e del bambino che portava in grembo, «mi fa sperare che quel sangue possa contribuire a creare un mondo più giusto e fraterno». Ciò che ferisce di più don Luca è che «sia stato usato il nome di Dio per mascherare odio, quando Dio è Amore ».
Per questo «la pena di morte per noi non è una consolazione ». Per Cristina Rossi, sorella di Cristian friulano di 47 anni ucciso nell’attentato, l’unica consolazione «sarebbe capire le motivazioni per cui degli innocenti sono morti. La pena capitale per noi è inconcepibile come cultura, è qualcosa contro l’essere umano».
Oggi per i parenti delle 9 vittime italiane si chiude una fase, «ma è comunque una giornata triste perché dopo quello che è successo quella notte a Dacca, in base alle leggi in vigore in quel Paese, altre vite andranno perse». Fabio Tondat è il fratello di Marco, imprenditore 39enne di Cordovado. Di fronte a questa sentenza – ammette – c’è un po’ di tristezza, perché non ci restituisce i nostri cari e quindi cambia poco: resta l’amarezza per altre morti. In questi anni, l’associazione dedicata a Marco – continua – promuove progetti per «valorizzare la vita perché questo può contribuire a far crescere una volontà di andare avanti più forte rispetto a quello che può essere un vile attentato».
Emozioni e razionalità si sono susseguite in pochi minuti invece nella mente di Patrizia D’Antona, sorella di un’altra delle vittime italiane, Claudia. «La prima reazione è stata emozionale – spiega – mi ha lasciata neutra nel senso che nulla potrà cambiare le cose e riportare indietro mia sorella ». Poi, da persona di legge e sotto il profilo razionale, ha pensato che «la giustizia ha fatto il suo corso, ferme restando le mie personali riserve sulla pena di morte». La sentenza era attesa in Italia, tuttavia, «per la mia famiglia non è una consolazione sapere che subiranno la pena capitale », aggiunge infine Graziella Riboli, che nell’attacco ha perso la sorella Maria.