Giornata contro la pena di morte. Amnesty a 23 Stati: fermate il boia
Stati Uniti, una sedia elettrica per le esecuzioni capitali (Ansa)
In occasione della XV Giornata mondiale contro la pena di morte, Amnesty International chiede oggi a quella minoranza di Stati che ancora mantengono in vigore la pena capitale di unirsi alla tendenza abolizionista globale. Nel 2016 solo 23 Stati hanno eseguito condanne a morte e un piccolo gruppo di essi (Cina, Iran, Arabia Saudita, Iraq e Pakistan) sono stati responsabili della stragrande maggioranza delle esecuzioni.
Amnesty International chiede a tutti gli Stati che ancora mantengono in vigore la pena di morte di abolirla e, in attesa dell'abolizione completa, di istituire immediatamente una moratoria sulle esecuzioni.
La Giornata: pena capitale e povertà
Quest'anno la Giornata mondiale contro la pena di morte si concentra sul legame tra la pena capitale e la povertà. Le ricerche evidenziano che le persone provenienti da ambienti socio-economici sfavorevoli sono colpite in modo sproporzionato dal sistema giudiziario, inclusa la pena di morte. Queste persone difficilmente possono permettersi una difesa efficace. La capacità di affrontare il sistema giudiziario dipende anche dal livello di alfabetizzazione e dalla disponibilità di reti sociali influenti cui affidarsi.
In Cina colpiti i più poveri
Recenti analisi condotte da Amnesty International sull'uso della pena di morte in Cina hanno rivelato una preoccupante tendenza: la pena capitale colpisce in modo sproporzionato le persone povere, quelle con livelli più bassi di istruzione e coloro che appartengono alle minoranze etniche o religiose. Solo la totale messa a disposizione dei dati sulla pena di morte da parte delle autorità cinesi potrebbe chiarire l'effettiva dimensione di questo fenomeno.
E in Arabia Saudita i lavoratori migranti
In Arabia Saudita il 48,5 per cento di tutte le esecuzioni registrate da Amnesty International dal gennaio 1985 al giugno 2015 ha riguardato cittadini stranieri, la maggior parte dei quali lavoratori migranti senza alcuna conoscenza della lingua araba, con cui si svolgono gli interrogatori e i processi, spesso in assenza di adeguati servizi d'interpretariato. Le ambasciate e i consolati non vengono informati del loro arresto e persino dell'esecuzione. In alcuni casi le famiglie non ricevono il preavviso dell'esecuzione e non ottengono indietro i corpi dei parenti messi a morte.
I dati nel 2017
Secondo i dati diffusi da Amnesty International, e che comprendono solo i casi accertati (quelli reali sono molti di più), dall'inizio dell'anno sono 586 le condanne a morte eseguite nel mondo, esclusa la Cina. Lo Stato che esegue il maggior numero di condanne a morte è indubbiamente la Cina, ma poiché questo dato (così come quello delle condanne) viene classificato da Pechino come segreto di Stato, dal 2009 Amnesty ha smesso di pubblicare la stima delle condanne a morte e delle esecuzioni in Cina. Si ritiene comunque che il numero sia nell'ordine delle migliaia. Segue la Cina, nella triste classifica, l'Iran con 355 condanne eseguite nel 2017. Vengono poi Arabia Saudita (85), Pakistan (45), Iraq (31), Stati Uniti (18), Giordania (15), Kuwait (7), Palestina (Gaza) e Somalia (6), Bahrein, Bangladesh, Singapore e Yemen (3), Giappone e Malesia (2), Bielorussia e Egitto (1).
La dichiarazione di Stoccolma
Quarant'anni fa, nel 1977, Amnesty International favorì l'adozione della Dichiarazione di Stoccolma, il primo manifesto abolizionista internazionale. «Quando uno Stato usa il suo potere per porre fine alla vita di un essere umano, è probabile che nessun altro diritto resti inviolato. Lo Stato non può dare la vita e si presume che non dovrebbe neanche toglierla», recita la Dichiarazione. All'epoca, solo 16 Stati (8 in Europa e 8 nelle Americhe) avevano abolito la pena di morte, nelle leggi o nella prassi. Oggi sono saliti a 105, mentre altri 36 Stati hanno abolito la pena capitale per i reati ordinari o ne hanno di fatto sospeso l'uso.