Diritti umani. La scure di Pechino su Hong Kong, condannati gli oppositori democratici
Una grande e pacifica manifestazione per la libertà e la democrazia ad Hong Kong. Ma Pechino non perdona gli oppositori
In quella che è forse la sentenza più dura nel colpire il movimento democratico di Hong Kong, ieri nove dei suoi leader – 5 dei quali cattolici – sono stati condannati a pene variabili da otto a 18 mesi di reclusione per la partecipazione alle manifestazioni che il 18 e 31 agosto 2019, hanno sfidato le pretese di controllo di Pechino sull’ex colonia britannica e aperto un periodo di forti tensioni, con punte di quasi rivolta e una repressione che ha sfiorato l’intervento militare.
Ieri era la giornata prevista per la lettura della sentenza per sette degli accusati condannati il primo aprile, ma ad essi se ne sono aggiunti altri due, giudicati per gli stessi reati. Secondo il giudice Amanda Jane Woodcock, tutti i condannati erano «consapevoli di violare la legge» partecipando alle proteste e intervenendo pubblicamente. Ancor più grave «considerando l’instabilità di quei giorni» e di conseguenza, ha indicato il giudice del tribunale di West Kowloon, dove un intero piano era stato riservato a media e osservatori locali e stranieri, «il caso implica una sfida diretta all’autorità della polizia. La marcia del 18 agosto era premeditata e ha causato interruzioni del traffico. E anche se era pacifica, c’era un rischio latente che potesse finire in violenza».
Nel contesto attuale, dominato dall’imposizione – dallo scorso giugno – della Legge sulla sicurezza nazionale cinese, le pene sono risultate relativamente “leggere”, considerando i cinque anni di detenzione potenzialmente applicabili per questi reati, e per cinque dei condannati, tra cui l’ottuagenario avvocato e fondatore del Partito democratico, Martin Lee, e la combattiva Margaret Ng, pure avvocato, condannati rispettivamente a 11 e 12 mesi di carcere, la pena è stata sospesa per 24 mesi.
Che questo avvenga nonostante le pressioni di Pechino resta positivo, ma nulla toglie alla gravità di provvedimenti che colpiscono personalità impegnate a chiedere il rispetto delle garanzie stabilite negli accordi che hanno accompagnato il passaggio di Hong Kong alla Repubblica popolare cinese il primo luglio 1997 e nella Legge base che ne avrebbe dovuto garantire per 50 anni un’ampia autonomia. Leggi non ignote ai condannati, quasi tutti avvocati, oltre che parlamentari, sindacalisti o attivisti, ma piegate per quanto possibile agli ideali repressivi. Non a caso, decine di leggi per almeno 600 pagine di testo, sono in via di revisione a Pechino per adeguarle alla nuova realtà di Hong Kong.
I condannati ieri sono le personalità più rappresentative della politica democratica, con l’esclusione di Jimmy Lai, un tycoon, un imprenditore di successo nel settore editoriale, distintosi per la scelta di investire capacità e ricchezza in iniziative che fossero anche utili ad alimentare la volontà democratica del territorio e a sottolinearne i diritti minacciati o negati. Lai si trovava già in carcere dallo scorso dicembre per avere violato la Legge sulla sicurezza nazionale, ma a lui il giudice ha inflitto una delle condanna più severe: 12 mesi di reclusione per la manifestazione del 18 agosto 2019 e una seconda a otto mesi per la partecipazione a quella del 31 agosto.
Pena complessiva ridotta a 14 mesi. Uguale la condanna per il sindacalista e fondatore dell’Alleanza di Hong Kong a sostegno dei movimenti patriottici democratici in Cina, Lee Cheuk-yan, mentre al vice-presidente del Partito del Lavoro, la signora Cyd Ho Sau-lan sono toccati otto mesi. 18 i mesi complessivi toccati a “Long Hair” Leung Kwok-hung, noto per il suo impegno e il suo stile aggressivo, oltre che per la caratteristica capigliatura. A 12 e otto mesi rispettivamente sono stati condannati gli attivisti Albert Ho e Leung Yiu-chung, entrambi con sospensione della pena per due anni, la stessa prevista per Yeung Sum, condannato a otto mesi di prigionia.
Immediata la reazione di Amnesty International, il cui direttore regionale per l’Asia-Pacifico, Yamini Mishra ha chiesto il rilascio dei condannati e sottolineato che «l’accusa, la sentenza e la condanna illegali di questi attivisti evidenziano l’intenzione del governo di Hong Kong di eliminare l’intera opposizione politica nella città».
«Dopo aver arrestato la maggioranza dei dissidenti di spicco di Hong Kong con una legge repressiva di sicurezza nazionale – ha proseguito la Mishra – le autorità ora stanno rastrellando i rimanenti oppositori pacifici sotto il pretesto di false accuse relative alle proteste del 2019. Queste condanne sono in violazione del diritto internazionale, secondo cui partecipare e organizzare pacifiche adunanze non richiede il permesso preventivo dello Stato. Né la mancata notifica alle autorità di un’adunanza rende illegale il fatto di parteciparvi. Il procedimento contro questi attivisti è semplicemente non sostenibile».