Potrebbe non essere solo un vertice di transizione. Proprio quando gli oltre 22mila delegati, a 48 ore dalla conclusione di domani, si erano rassegnati a partire da Cancun senza alcun accordo vincolante, ieri, i giochi si sono riaperti. E l’atmosfera del Moon Palace – dove si svolge la sedicesima conferenza dell’Onu sui cambiamenti climatici – sì è, d’un tratto, surriscaldata. Merito della svolta dei Paesi Basic – Cina, India, Brasile e Sudafrica – ovvero le quattro grandi potenze industriali emergenti. Che hanno annunciato di voler tagliare le proprie emissioni di anidride carbonica, attraverso impegni volontari ma nell’ottica di un accordo generale e vincolante. Non solo. I quattro hanno anche garantito l’intenzione di sottoporsi a verifiche periodiche sul mantenimento degli obblighi presi. A compiere, per prima, il “grande passo” è stata la finora intransigente Pechino. La Cina, per bocca del capo negoziatore Xie Zhenhua, si è detta disponibile a ridurre la propria quota di CO2 del 40 - 45 per cento nei prossimi dieci anni rispetto ai livelli del 2005. E di sottoscrivere questa decisione «nell’ambito di una risoluzione che sia vincolante, trasformando i nostri sforzi in una parte dell’impegno internazionale». Una scelta – ha sottolineato Xie – «volontaria» perché Pechino – nonostante il rapido sviluppo degli ultimi decenni – resta un Paese emergente. E a questi ultimi, il Protocollo di Kyoto – quello siglato nel 1997 e che impone tagli alle emissioni per le nazioni del Nord del mondo – non pone limiti vincolanti. In cambio di questa apertura, i Paesi Basic devono prorogare l’accordo di Kyoto, che scade nel 2012. Ovvero, devono continuare a ridurre i loro gas inquinanti. In aggiunta – ha chiesto il capodelegazione indiano Ramesh – devono accelerare i finanziamenti per infrastrutture “ecologiche” al Sud del pianeta – a partire dai 30 miliardi promessi al precedente vertice di Copenhgen e mai arrivati – e garantire il trasferimento di tecnologie pulite nel cosiddetto Terzo mondo. Il grande scoglio è rappresentato dalla prima questione. Ovvero il rinnovo di Kyoto. Il Giappone è contrario in quanto – come ha detto fin dall’inizio del vertice di Cancun – lo ritiene «ingiusto». I 44 Paesi industrializzati – che rientrano nei limiti del Protocollo – producono appena il 30 per cento di emissioni nocive. Il resto viene da quelle nazioni emergenti lasciati liberi di inquinare per non minarne lo sviluppo. Sulla stessa linea, da sempre, gli Stati Uniti che non hanno mai sottoscritto Kyoto. Washington rifiuta impegni vincolanti fino a quando anche Pechino e New Delhi non faranno altrettanto. Proprio su questo scoglio, si erano infranti i due precedenti incontri di Tianjin e Copenhagen. Ora, l’apertura cinese apre nuovi spazi di negoziato. A cui si aggrappano le speranze degli scienziati che da anni avvertono sulla relazione tra CO2 e riscaldamento globale e sui danni ambientali che quest’ultimo produce. Il compito di mediare tra i vari contendenti durante la “sessione d’alto livello”, che si è svolta nella notte, ora spetta a Brasile e Gran Bretagna, presidenti di turno del vertice. La sfida è riuscire a elaborare, perlomeno, una “road map” condivisa che faccia da base per il prossimo vertice di Durban. Da cui – sperano gli scienziati – dovrebbe uscire il nuovo accordo sul clima.